Chiunque sia appassionato di profezie si è probabilmente posto questa domanda: quale motto potrebbe descrivere il pontificato di Papa Leone XIV secondo le enigmatiche formule attribuite a San Malachia?
Già nel 2014, su questo stesso giornale, avevo sollevato il dibattito in un articolo intitolato “Petrus Romanus o De Gloria Olivae?”, interrogandomi sul destino della Chiesa alla luce delle misteriose locuzioni latine che, secondo una tradizione, sarebbero state associate ai successori di Pietro. Oggi, con l’elezione di Leone XIV, quel tracciato torna attuale. Ma con una sfumatura nuova, da interpretare più che da dogmatizzare.
Secondo la leggenda, San Malachia d’Armagh avrebbe stilato nel XII secolo una lista di 112 brevi motti in latino, ciascuno riferito a un futuro pontefice, culminando con una figura misteriosa: Petrus Romanus, destinato a guidare la Chiesa durante una persecuzione estrema. Subito prima compare il motto che recita De Gloria Olivae, spesso accostato — forse arbitrariamente — a Benedetto XVI.
Le cosiddette Profezie di Malachia — una lista di 111 motti più uno finale su “Pietro il Romano” — sono ritenute dalla stragrande maggioranza degli studiosi un testo pseudoepigrafo, cioè non autentico. L’evidenza storica indica che furono redatte verso la fine del XVI secolo e non dal santo medievale cui sono attribuite. Il documento comparve per la prima volta nel 1595 nel Lignum Vitae del monaco benedettino Arnoldo Wion, e si sospetta fortemente che sia stato proprio Wion (o ambienti a lui vicini) a comporlo ex novo.
Numerosi storici concordano sul fatto che la “profezia” sia un falso del tardo Cinquecento, probabilmente creato durante il conclave del 1590 per scopi propagandistici. La Chiesa cattolica non ha mai riconosciuto ufficialmente la validità di questi motti, che non compaiono in alcun elenco dottrinale o documento approvato dalla Santa Sede. Nonostante ciò, il testo ha continuato a esercitare un forte fascino per la sua forza evocativa.
Un ulteriore indizio della sua natura artificiale è l’inclusione arbitraria, nella lista di Wion, di dieci antipapi mescolati ai pontefici legittimi, senza distinzione netta. Tali nomi non figurano negli elenchi papali ufficiali. Se si escludessero questi inserimenti, la sequenza dei motti slitterebbe: mancherebbero ancora dieci pontefici prima di giungere a Petrus Romanus, e molte delle attribuzioni moderne dovrebbero essere riviste.
In tale prospettiva, il motto Ignis ardens — il fuoco ardente — emergerebbe come plausibile descrizione spirituale del pontificato di Papa Leone XIV. Un’ipotesi suggestiva, certo, ma tutt’altro che infondata.
Un Papa agostiniano: simboli di fuoco e conversione
Papa Leone XIV è agostiniano. E il simbolo dell’Ordine di Sant’Agostino è un cuore infiammato, trafitto da una freccia, poggiato su un libro. Il cuore rappresenta l’amore per Dio; la fiamma, il desiderio di santità che consuma e trasforma; la freccia, la Parola che trafigge. Un simbolo che parla di interiorità, di passione spirituale, di vita ardente.
Non è forse questa — almeno simbolicamente — l’immagine che meglio rappresenta a oggi il nuovo Pontefice?
Una rilettura dei motti: suggestione, non predizione
Se Ignis ardens fosse riferibile a Leone XIV, l’intera lista dei motti potrebbe essere riletta alla luce di nuove associazioni simboliche, senza la pretesa di attribuzioni dogmatiche ma con l’intento di esplorare le affinità spirituali e stilistiche tra i pontefici e i rispettivi motti.
Pio XII potrebbe incarnare l’immagine del Peregrinus Apostolicus, per la sua instancabile azione diplomatica e spirituale in tempi oscuri. Giovanni XXIII, con la sua apertura conciliare, rievocherebbe l’Aquila rapax, audace nel volo verso la riforma. Paolo VI, stretto fra prudenza e determinazione, richiamerebbe il simbolismo complesso di Canis et Coluber. Benedetto XVI, con la storica rinuncia al pontificato, si staglierebbe sotto il motto Crux de cruce, portando su di sé sia la croce dell’autorità, sia quella della rinuncia. Papa Francesco, infine, con il sole nel suo stemma e il suo stile pastorale, si armonizzerebbe perfettamente a Lumen in coelo, la luce nel cielo.
E infine, Papa Leone XIV. Ignis ardens. Non per analogia esterna, ma per corrispondenza interiore. Per essenza spirituale.
Un fuoco che parla al nostro tempo
In definitiva, l’ipotesi di Ignis ardens per Leone XIV non ha pretese di verità assoluta. È una lettura tra le tante, ma che mostra coerenza simbolica, spirituale e, in un certo senso, anche ecclesiale.
Le profezie — che siano storicamente fondate o no — non hanno mai avuto il compito di dettare la cronaca. Servono piuttosto a interrogare, a far riflettere, a evocare. Ed è forse proprio questo il compito di chi guarda con fede e intelligenza ai segni dei tempi: lasciarsi scaldare, senza farsi bruciare.