I problemi e i temi contestati di questa Europa sono noti a tutti. Una moneta unica che sembra non portare quei vantaggi a lungo decantati, una disparità di trattamenti, un accentramento di potere verso la Germania, una serie di norme tese ad agevolare più la minoranza burocratica che la maggioranza popolare.
Non è un caso, quindi, che la Gran Bretagna sia giunta al punto di istituire il comitato del “Leave”, con l’obiettivo di far decidere al popolo britannico se restare in questa Unione Europea, con i vantaggi e gli svantaggi che questo comporta, o se appunto lasciare l’UE e proseguire il cammino da Stato sovrano in tutto e per tutto.
Un referendum che ha spaccato in due la politica inglese (e non solo), tra l’altro portando a una netta divisione anche lo stesso partito di governo, il Partito Conservatore il cui leader, David Cameron, è il Primo Ministro.
Una curiosa e pericolosa divisione interna, quella che ha portato Boris Johnson, uno dei primi sostenitori del “Leave”, a schierarsi apertamente contro Cameron, fermo sostenitore della permanenza nell’Unione Europea.
Ma anche gli altri partiti inglesi hanno rapidamente preso posizione: il Partito Laburista, guidato da Jeremy Corbyn, sta facendo propaganda per il restare, consolidando di fatto l’asse di governo tra le frange centriste dei Tories e i Labours. Fortemente spinto verso il no è invece Nigel Farage, volto noto anche alla politica italiana, essendo alleato del Movimento 5 Stelle al Parlamento Europeo.
Lo stesso Farage ha sfidato Cameron a un confronto TV, nel quale il leader dell’UKIP ha ottenuto la maggior parte di consensi su temi caldi come immigrazione e sovranità, puntando l’indice verso lo scollamento tra l’eurocrazia di Juncker e la politica UE e la mancanza di sovranità del Regno Unito.
Di tutt’altra pasta le argomentazioni di Cameron, che ha invece sostenuto che un addio all’UE non porterebbe la Gran Bretagna ad essere uno Stato sovrano, ma semplicemente uno staterello fuori dai grandi giochi geopolitici (una “little England“), oltre a una serie di ripercussioni economiche nell’immediato periodo alle quali non si sa cosa potrà seguire.
Va detto, a vantaggio di Cameron, che contrariamente a quanto fatto da molti leader filo-europei dell’Unione, non si è limitato a dire quanto pericolosa possa essere un’uscita, ma ha anche provveduto con riforme strutturali (una riduzione dello sgravio fiscale alle imprese e un piano concordato con le Banche per evitare il tracollo) in modo tale che l’esito del referendum non sia condizionato dalla solita retorica del “disastro” in caso di un voto sgradito all’Europa.
In breve sostanza, quello tra “Leave” e “Remain” è il primo grande confronto di questo anno politico, che anticipa di qualche mese le elezioni politiche americane. In caso di vittoria del Leave e di Donald Trump, si potrebbe parlare di vera e propria rivoluzione dell’assetto mondiale per come lo conosciamo oggi. Molto meno unitario e comunitario, molto più identitario e nazionalista. Un anno storico.