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Anima e corpo: dicotomia o continuità?

Né il freddo, né il caldo e nemmeno la vecchiaia impedisce di esercitare le forze dell’animo. Cura dunque quel bene che si fa migliore col passare degli anni”: con queste parole, Seneca ammoniva l’amico Lucilio nelle sue Epistulae Morales, invitandolo ad occuparsi dell’anima secondo i principi della dottrina stoica. L’implicita contrapposizione al corpo è inequivocabile: il tempo, infatti, è un nemico storico del corpo, il quale, col passare degli anni, invecchia e si deteriora. Più volte il filosofo latino mette in guardia sui “pericoli” derivanti dal corpo, del quale si finisce presto ad essere schiavi. L’invito ricorrente è ad essere consci di non poter esistere senza il proprio corpo, evitando però di vivere per esso.
Il mondo classico aveva maturato la concezione del corpo come “contenitore” di qualcosa di più grande, di migliore, di invisibile e, di conseguenza, fragile. Era un involucro scomodo ma necessario, senza il quale risultava impossibile relazionarsi con gli altri. Il corpo è la testimonianza della nostra esistenza, dell’ubicazione in una dimensione spazio-temporale e contribuisce alla creazione della nostra identità. Platone, a suo tempo, lo definì “tomba dell’anima”, un ostacolo che le impedisce di ascendere all’Iperuranio. Il Cristianesimo, in linea con Platone, genera l’idea del corpo come “tempio” da non profanare con i piaceri del mondo per garantire la salvezza dell’anima. Corpo e anima, dunque, si assumono in posizione dicotomica e, nella maggior parte dei casi, il primo è subordinato alla seconda. Aristotele, al contrario, rifiuta il dualismo tra corpo e anima, cercando piuttosto continuitàtra le due: l’anima è l’atto e il corpo è il suo strumento. Ad ogni funzione psichica corrisponde una funzione fisiologica, di modo tale che l’anima diventa essenza di un determinato corpo.
L’antico sogno umano è quello di superare le barriere imposte dal corpo, di possedere il dono dell’ubiquità attribuito, non a caso, solo a Dio. Paradossalmente il corpo permette di comunicare e relazionarsi ma, allo stesso tempo, senza l’aiuto della tecnologia, esso garantirebbe solo un’interazione faccia a faccia. Di nuovo, il corpo è visto come un limite spazialmente situato e impossibile da trascendere. Ciò nonostante, il corpo, come insegna la sociologia, permette all’individuo di fare esperienza del mondo e costruire il proprio universo di significati condivisi, senza i quali non riuscirebbe ad orientarsi.
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Secondo Bellusci, riprendendo una conferenza di Michel Foucault del 1966, il corpo “non è mai veramente solo “qui”, come una cosa tra le cose, ma aperto, proteso, impegnato nel mondo e su ciò che esso gli offre”. Il corpo non è più la tomba dell’anima, bensì “il luogo della sua emergenza”. L’utopia più difficile da sradicare dal cuore dell’uomo è quella di un corpo incorporeo, indistruttibile, invisibile all’occorrenza. Foucault ci insegna che il corpo è il punto zero del mondo, in base al quale gli oggetti cambiano posizione e in funzione del quale esistono una destra, una sinistra, un sopra e un sotto; è la prospettiva, il punto di vista soggettivo che muta in base alla locazione dei nostri sensi.
Ma se il corpo è un topos, allora il non-luogo è l’anima, la cui percezione parte dal corpo stesso. Eppure, esistono dei modi per placare la negazione del corpo, ovvero l’amore, lo specchio e la morte. Riflessi in una superficie, impariamo a conoscere il nostro involucro materiale, così come nell’amore, “costretti” a riconoscere il limite delle nostre membra a contatto con l’altro. Nella definizione foucaultiana, lo specchio diventa quindi eterotopico, “uno spazio in cui ci vediamo dove non siamo”.
Se per Foucault il corpo è l’attore principale di tutte le utopie, per Bauman il corpo è il centro di ogni angoscia per l’individuo contemporaneo, vittima di strutture destrutturate che, come in un caleidoscopio, si ricompongono sempre in nuove forme liquefacendo i propri confini. Il corpo non è più un limite, perché “l’umanità è ormai senza occhi, mani, piedi”. L’individuo trova difficile ancorarsi al corporeo, perché chi mette radici è vincolato, emarginato, condannato. Le Breton, invece, considera il corpo come “l’estensione dell’anima” e “una misura del mondo”, concepito come materia grezza da modellare a piacere. Non più mutua esclusività tra anima e corpo, dunque, bensì continuità, secondo il motto degli antichi latini “mens sana in corpore sano”.
Nel Fedro, Platone scriveva:”[…] sepolti in questa tomba, che chiamiamo corpo e che trasciniamo con noi, imprigionati in esso, come ostriche nel proprio guscio”. Una prigione, tuttavia, senza la quale risulta difficile immaginarsi l’esistenza.
Antonella Gioia