Il volo su Vienna del 9 agosto 1918, secondo le volontà del Comando Supremo, doveva dimostrare che: “Il volo avrà carattere strettamente politico e dimostrativo; è quindi vietato di recare qualsiasi offesa alla città … Con questo raid l’ala d’Italia affermerà la sua potenza incontrastata sul cielo della capitale nemica. Sarà vostro Duce il Poeta, animatore di tutte le fortune della Patria, simbolo della potenza eternamente rinnovatrice della nostra razza. Questo annunzio sarà il fausto presagio della Vittoria”.
Il Regno d’Italia voleva dimostrare di essere in grado di volare impunemente sui cieli della più importante città avversaria, insinuando nel nemico l’idea che gli italiani sarebbero potuti tornare dal cielo ancora, ma magari non sganciando volantini ma potenti ordigni esplosivi.
Gli aviatori italiani per compiere la missione effettuarono 7 ore di volo per coprire i circa 1000 km di rotta, 800 dei quali in terra nemica. Questa azione smosse l’opinione pubblica austriaca contro il Governo e la portò in un certo senso a “simpatizzare” con l’azione italiana. la testata più critica fu l’Arbeiter Zeitung, la quale retoricamente si chiese: ”Dove sono i nostri D’Annunzio?“
Un fatto meno noto, ma degno di essere messo in luce, avvenne il 21 Agosto 1918, quando quattro idrovolanti Macchi M.5 ebbero come compito di scortare un Macchi M.8 incaricato di sganciare volantini sulla città di Pola. Gli aerei condotti da personale americano e decollati dalla Naval Air Station di Porto Corsini, nei pressi di Ravenna, portarono a termine la missione, ma attaccati da aerei austriaci sulla via del ritorno, un M.5 fu costretto all’ammaraggio a poche miglia dalla costa nemica.
Fu allora che il Hammann, incurante del mare ingrossato e delle unità nemiche ormai prossime all’aereo del commilitone in difficoltà, decise di ammarare e portare in salvo il proprio capopattuglia. Questa azione gli valse la Medal of Honor da parte statunitense e la Medaglia d’Argento al Valore Militare italiana.
Stefano Peverati