Tra le storie che è bello rileggere nell’avvicinamento al Natale, occupa un posto di primo piano il racconto, uscito dalla penna geniale di Giovannino Guareschi, di don Camillo e Peppone alle prese nottetempo con l’allestimento di un presepe. Si tratta di un episodio breve – che si può leggere integralmente qui – ma carico di atmosfera e poesia. Gli aspetti molto belli, direi quasi commoventi della vicenda sono diversi. Anzitutto, c’è il modo con cui il sacerdote e il sindaco comunista realizzano la Natività, collaborando fraternamente, anche se a tratti punzecchiandosi. All’inizio Peppone non ne vuole sapere («Figuratevi! Adesso mi metto a pitturare i santi!»), ma poi don Camillo gli passa il Bambinello di gesso.
A quel punto, il sindaco si mette al lavoro, pennellando di rosa la statuina del Salvatore. Alla fine, il risultato deve essere notevole perché, ci fa sapere Guareschi con magistrale realismo, sembra quasi che Gesù prenda vita, tra le manone da meccanico del rivale di don Camillo: «Peppone lo guardò e gli parve di sentir sulla palma il tepore di quel piccolo corpo». Nel frattempo – secondo aspetto degno di nota della storia – l’amicizia tra parroco e sindaco, mentre sono all’opera seduti allo stesso tavolo, si rinsalda. «Di me ti fidi?», chiede infatti ad un certo punto il sacerdote al sindaco che ha appena fatto professione di diffidenza totale («Non mi fido neppure di me stesso»), e quest’ultimo corregge di colpo il tiro: «Non lo so».
Il fatto che Peppone abbia evitato di dire che non si fida di don Camillo è una di quelle piccole perle con cui Guareschi ci fa capire come i due, in fondo, si vogliano un gran bene. Ma la cosa più toccante in assoluto di questo racconto è come esso termina, col sindaco comunista che, ultimato il presepe, se ne esce nella gelida notte padana. Con tutto quel freddo, ci sarebbe stato da tremare e da brontolare. Invece Peppone «era tranquillissimo perché sentiva ancora nel cavo della mano il tepore del Bambinello rosa». Il racconto si conclude poi con una profezia stupenda, e cioè quella secondo cui, anche quando l’umanità sarà super evoluta, di un presepe ci sarà sempre bisogno, perché la sua bellezza resterà insuperata.
«E fra mille anni la gente correrà a seimila chilometri l’ora su macchine a razzo super atomico», scrive Guareschi, «e per far cosa? Per arrivare in fondo all’anno e rimanere a bocca aperta davanti allo stesso Bambinello di gesso che, una di queste sere, il compagno Peppone ha pitturato col pennellino». La morale del racconto è cristallina e parla ancora, dopo decenni, a ciascuno di noi. Siamo in trepidante attesa di ricevere dei regali e affannati con gli acquisti degli ultimi, per non parlare dei rischi e delle difficoltà di questa pandemia. Eppure, più si avvicina il Natale e più siamo destinati, come il sindaco comunista avvolto dalle tenebre della Bassa, a ritrovarci grati e «a bocca aperta» davanti alla meravigliosa realtà di un Bambino venuto per salvarci da quel caotico tunnel di ombre e pensieri che, diversamente, sarebbe la nostra vita.