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Musica di Genova e misteri italiani – Luigi Tenco

La storia di Luigi Tenco sembra datata, e lo è in senso strettamente cronologico: ma, poiché il caso è stato riaperto e richiuso due volte, l’ultima nel 2015, forse merita qualche riflessione, come paradigma di molti comportamenti, per esempio lo sciacallaggio mediatico.

Diciamo subito, per farci un po’ di nemici, che non accordiamo a chiunque il diritto di occuparsi di tutto, dal punto di vista criminologico. Un conto è porsi da osservatore, altro è uscirsene a trent’anni o poco più, con la pretesa di rivisitare un mistero sulla base dell’esame di vecchie carte che, date per manomesse in malafede, non diventano necessariamente buone per dimostrare il contrario della verità ufficiale: ci siamo intesi?

Ci spiegheremo meglio col dipanarsi del racconto.

Il bel canto italiano è diventato il nostro marchio di fabbrica e all’estero siamo apprezzati quasi solo per la natura enfatica nell’espressione dei sentimenti. Vero è che vi fu chi tentò di sfondare dei muri. Ci provarono gli urlatori, a dispetto dei vecchi solfeggiatori alla Luciano Tajoli o Nilla Pizzi; ci hanno riprovato artisti più “off”, contaminandosi con mondi lontani e proponendo insalate di melodia e reggae, folk e tamburi, ma di massima rimaniamo sempre quelli di cuore e amore.

Lo stile italiano restò quasi inalterato per decenni; durante la guerra si imposero canti guerreschi come Bella Ciao, sempre un po’ cadenzati su marcia, ma quella retorica ebbe vita breve. Scoppiò la pace, arrivarono gli americani.

Lì per lì non ebbero subito un successo clamoroso. Ovviamente iniziarono a conoscersi Sinatra e Crosby, e in ambienti giusti veniva apprezzato il jazz, ma in Italia teneva saldamente il suo posto la melodia. A rinforzare la tendenza ci si mise il filone napoletano, già onusto di gloria per pezzi come “Torna a Surriento“, “Dicitencello vuje” e la clamorosa “O sole mio” – tuttora le canzoni italiane più famose nel globo. Le versioni più estreme del genere confluivano nella “sceneggiata” ,di cui era campione Mario Merola.. Esisteva poi un’altra corrente, sofisticata, approfondita da studenti della Napoli bene, che riscopriva vecchi testi, spartiti più difficili su cui sperimentare. Essa rilanciò, in chiave folk chic, la Napoli che fu: parliamo soprattutto della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Sempre sotto il Vesuvio, vanno ricordati: il corrosivo Edoardo Bennato; lo sperimentatore vocalist Alan Sorrenti; i cantautori e percussionisti Tony Esposito e Tullio De Piscopo. Negli anni settanta esplose l’astro di Pino Daniele; ebbero un momento d’oro i rapper antagonisti tipo “99 Posse”, mai sono tramontati i neomelodici.

Inoltre, per non farci mancare nulla, subivamo l’influenza dei francesi, che si travasò nel cantautorato, il tutto più o meno confinato al centro nord; e nella moda yè yè (alla Rita Pavone). Le spumeggianti note di tipo latinoamericano erano reperibili nei dancing, per far piroettare al ritmo di rumba e cha cha cha; o vennero rispolverate da Raffaella Carrà, che ne fece una bandiera, da imporre perfino dove erano nate.

Dal momento in cui entrarono in scena i Beatles, non ci fu altro che una rincorsa a imitarli. Si scovavano gruppi anglosassoni, e poi americani, di terza fila e si importavano come divi sul Tevere; si fabbricavano cover di successi in inglese; fiorivano le band italiane (i “complessi”); si componevano i pezzi nostrani con un occhio agli accordi rock e testi più sincopati, passò di moda la rima; divi alla Morandi, ancora giovani, dovettero farsi da parte; qualcuno tirava dritto per la sua strada come la “Dolly Parton italiana”, cioè Orietta Berti: tutti attendevano i tempi migliori ,che poi sarebbero tornati perché, si sa, gli italiani sono nostalgici.

Catalizzatore di tutto era il Festival di Sanremo, escogitato nei primi anni cinquanta sul modello delle kermesse di Las Vegas: cena, concerto, poi tutti a giocare al Casinò. All’inizio era poco più che un confronto tra pochi divi e grandi orchestre.

Diventò una competizione crudele, da gladiatori della musica. Tra i partecipanti illustri si conta Louis Armstrong: pagato una follia, si mise di buzzo buono a strombettare, cantando con un occhio al gobbo approntato apposta per lui (non si capiva nulla) e convinto di dover tenere un lungo concerto. Praticamente, dopo qualche minuto, lo dovettero tirare giù dal palco, con suo sommo sconcerto.

Ricordiamo brevemente che l’Italia si è distinta nel tarocco della disco music in inglese, riuscito perfettamente (pensiamo alla cantante Spagna) ed esportato ovunque, come appunto non capitava dai tempi di Napoli.

Il rock si è espresso, ma adattato alle esigenze commerciali e a quelle della lingua italiana, ostica con la sua penuria di parole tronche. Secondo alcuni rimane troppo addomesticato, per essere rock vero, lasciando spazio ad ampi settori “di nicchia”, accessibili in circuiti poco pubblicizzati. Forse ancora si rimpiangono gli eroi che ci provarono davvero, gente come la Premiata Fonderia Marconi.

Alla fine, benché all’estero non sia riuscito a sfondare, la memoria va sempre al cantautore che si distinse per aver mediato tra stile anglofilo e tormenti all’italiana, lo scorbutico laziale Lucio Battisti. Nemmeno Celentano lo raggiunge nel mito, ma il molleggiato ha altre frecce al suo arco. Oggi si rivisita perfino una figura a lungo irrisa, come Mino Reitano, in realtà ottimo autore, ad esempio per la Vanoni.

Come è stato sempre ripetuto, esisterebbe una scuola cantautorale genovese, formata da pochi eletti, tra i quali, però, raramente viene inserito il buon Ricky Gianco e poco viene citato Umberto Bindi.

Poiché genovesi siamo e la nostra anagrafe ci ha permesso di assorbire il tempo che fu, diciamo subito che uno che non è di Genova poco può sapere del clima che vi si respirava. Mentre è possibile conoscere qualcosa di Roma, Milano, Napoli, Firenze o Venezia, città cult che ci hanno rifilato in arte e cronaca, di altri posti è meglio trattare con cautela, se si è di fuori, e Genova è tra essi. Ne approfittiamo per salutare il Disco Club di via San Vincenzo, leggenda beat ancora aperta, dal 1965.

Di più, anche da nativi, e lì cresciuti, perfino tale vantaggio viene eroso a seconda di chi si è, come la si è vissuta: il centro storico non era lo stesso per un portuale, un oste, un frequentatore dell’angiporto mercenario o un giovane che ci andava ogni tanto, alla quale ultima categoria apparteniamo; e se di sesso femminile, l’interesse antropologico non era lo stesso dei maschietti coevi, che lì trovavano spassi estremi. E averlo visto negli anni sessanta, quando ancora rifulgeva, nei settanta, quando cadde in rovina, e all’approssimarsi di inizio millennio, quando rinacque glam, solo a un indigeno può offrire i crediti per una disamina serena.

Gli artisti in musica della Lanterna, o paraggi, divenuti famosi sono pochi e non appariscenti. Richiamiamo da antiche memorie il re dello swing all’italiana Natalino Otto; il defilato Ivano Fossati, il talentuoso Oscar Prudente; tra le donne, tolte le “ragazze” dei Ricchi e Poveri, non si può non citare Antonella Ruggero ex Matia Bazar, mettiamoci una Sabrina Salerno, più la precocemente scomparsa (e semisconosciuta al grande pubblico italiano) Roberta Alloisio, rimane il ramo etnico, il genovese folk di Franca Lai & co, ma è un settore così poco frequentato dai “foresti”, che qui non iniziamo nemmeno a parlarne.

Nella tradizione locale è rinomato il tradizionale “trallallero” a cappella, da non confondere con quello sardo, pur se con elementi comuni: una efficace sintesi si trovò nella voce di Andrea Parodi (1955/2006), nato a Porto Torres con origini savonesi, che brillò a certi livelli con i Tazenda.

Arduo sarebbe altresì elencare i tanti turnisti locali, ma vogliamo ricordare un drummer assurto a una certa fama nei “Kim and the Kadillacs”, Franco “Dede” Loprevite, scomparso nel 2014: uno che ci dava fin da ragazzino nella sua cantina a Rivarolo, propaggini interne della town, un po’ canzonato dai coetanei, che ebbero poi ad ammirarne l’ascesa, nel suo piccolo. Il successo è anche questo: incomprensione, sberleffo e una rivalsa che, quando arriva, sa di amaro.

Ci sarebbe anche una scuola rap (il più celebre è stato Moreno) e una demenziale, rappresentata da “Le Voci Atroci” (con Andrea Ceccon, salutiamo anche lui, pur consci che non ci riconoscerebbe per strada).

Tra i gruppi, non possiamo non citare i magici New Trolls, ricordando l’appena scomparso Vittorio De Scalzi.

Con un lieve disappunto, che non nasconderemo, ci teniamo Luigi Tenco quale esponente del club cittadino, ma per la precisione il giovanotto era quello che i genovesi stesso avrebbero definito, un tempo, “mandrogno”, ovvero nato nell’alessandrino, e poi sceso in Liguria.

Visto che si tratta di “importati” va anche riferito che …Paolo Conte è nato a Sanremo nel 1976 con il Club Tenco. Quando Amilcare Rambaldi (fondatore del Club) lo invitò alla rassegna, era praticamente ancora sconosciuto. Ricordo che pensò di doversi esibire in un piccolo club. Quando si trovò davanti all’Ariston ebbe quasi uno shock perché non si aspettava un teatro così grande». Con queste parole il fotografo Roberto Coggiola ha ricordato, nel 2007, i primi passi del cantautore, in occasione di una mostra fotografica tenuta al Teatro Ariston, dal titolo Paolo Conte a Sanremo dal 1980 al 2005…”.

E con questo, siamo lieti di non essere più bersagliati da “Genova per noi”, che riguarda i padani: ve lo ripetiamo, Genova non ha i giorni tutti uguali.

Segue

Carmen Gueye