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Cultura

Agli italiani piace il sushi. Ma esattamente quanto?

Tutti al bar per l’aperitivo del sabato sera. Inizia ad essere tardi, lo stomaco brontola dopo il secondo spritz e si sta facendo ora di cena. Ed ecco il dubbio amletico: “pizza o sushi?”. Da un lato abbiamo l’alimento italiano per eccellenza, emblema della genuina tradizione culinaria tricolore, dall’altro si schiera il simbolo della cucina asiatica agli occhi di noi occidentali, immagine di semplicità grazie ai suoi ingredienti principali e portatore allo stesso tempo di quel tocco esotico che sempre ricerchiamo.

Fra le varietà di sushi più diffuse vi sono uramaki e hosomaki, rotoli di riso e pesce avvolto da alghe interne o esterne, nigiri con una striscia di riso coperta da pesce, e sashimi, solo pesce crudo opportunamente lavorato secondo i regolamenti europei per l’abbattimento delle materie crude (Regolamento 853/04).

Negli ultimi anni il settore della ristorazione italiana ha visto crescere considerevolmente l’offerta della cucina giapponese, sviluppatasi in due diverse soluzioni, ossia i più comuni ristoranti di sushi all-you-can-eat e quelli asiatici e fusion, per poi approdare anche in super- ed ipermercati. Addirittura il mercato a livello globale ha un’aspettativa di espansione di quasi 2,5 miliardi di dollari fino al 2025.

La prima formula, quella all-you-can-eat, è senza ombra di dubbio quella più diffusa fra gli italiani –e nel mondo- e prevede la possibilità di consumare piatti illimitati a prezzo fisso, spendendo generalmente fra i 10 e i 15 euro a pranzo e fra i 20 e i 30 euro a cena, laddove bevande, dolci e coperto sono sempre esclusi. Ma com’è possibile rientrare in questa fascia di prezzo trattandosi di pesce? La scommessa economica non è solo sulla quantità, bensì sulla varietà: in questi locali si offrono pochi tipi di pesce (spesso salmone, tonno, gamberi e branzino o anguilla) comprati e immagazzinati in enormi stock, ma declinati poi nel menù in moltissime modalità di presentazione. Talvolta, l’essenzialità di questi ingredienti è contaminata da alimenti più “locali” appartenenti alla nostra tradizione in cucina; ritroviamo, per esempio, l’esperimento di sushi roll con le fragole o sormontati dalla tipica burrata pugliese.

sushi on brown wooden board
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Il suo accesso alla GDO (Grande Distribuzione Organizzata) è tra i fattori scatenanti della sua popolarità, in quanto ha creato l’opportunità di raggiungere (quasi) tutte le bocche degli italiani. Secondo un’analisi di Businesscoot, si stima infatti che solo nel 2018 circa il 43% dei consumatori nel nostro Paese abbia acquistato almeno una volta nella vita questo prodotto nei negozi, mentre ben il 18% lo fa con regolarità mensile e bisettimanale. Se siete interessati ad acquistarne, è possibile trovarlo in molteplici supermercati italiani, fra cui Coop, Conad, Carrefour Italia ed Esselunga, dove a volte vengono creati dei veri e propri “sushi corner” nel banco frigo.

Si registra un forte sviluppo del mercato sushi anche in termini di food delivery secondo il colosso Just Eat: si assesta, con una crescita post quarantena del +42%, fra i primi 5 cibi più ordinati da casa in Italia in costante avanzamento, e al terzo posto, dopo pizza e hamburger, sul totale di consegne a domicilio. Da notare che acquistare sushi in delivery è infatti come mangiarlo à la carte, ergo maggiore la quantità di piatti nipponici consumati, maggiore il costo; questa forse la ragione della proliferazione di ristoranti all-you-can-eat ad ogni angolo delle strade, da Nord a Sud. O forse no.

Questa particolare modalità di somministrazione del cibo di derivazione americana era pressoché nuova al popolo italiano al suo arrivo. Ciò non ci ha comunque impedito di gustare ogni singolo pezzo di sushi a volte ben oltre la soglia di sazietà che normalmente raggiungeremmo mangiando in un ristorante.

La tendenza ad abbuffarsi davanti ad un menù a prezzo fisso (a maggior ragione se di pesce!) fa parte della natura umana, e nemmeno di quella più intrinseca.

Tuttavia, sarebbe più corretto analizzarla a fronte dei valori circolanti nella nostra società: se consideriamo il sushi come un qualsiasi altro prodotto destinato alla vendita, invece che un’esperienza di immersione in una nuova cultura gastronomica, ci accorgeremo che esso è stato programmato per essere bello, prodotto in grandi quantità e a prezzi concorrenziali.

Nel corso degli anni i maki sono diventati via via più colorati, incuriosendo il nostro occhio con tinte sgargianti come il rosa shocking (ottenuto con colori artificiali), il giallo brillante del mango e dell’ananas, così come il nero del riso venere; tutto è decorato con ciuffi verdi e cascate di frutta secca in uno stile quasi barocco che rende ancor più la sensazione di ricchezza e corposità.

Una volta soddisfatto il nostro gusto estetico del “bello e superfluo”, si passa allo stomaco: come accennato prima, l’acquisto del pesce necessario alla preparazione del sushi tratta volumi importanti misurati in tonnellate. Da uno studio condotto dalla Nielsen, l’importazione italiana di solo salmone dalla Norvegia nel 2018 ha contato 62.000 tonnellate e una spesa di oltre 6 miliardi di euro. Un’ulteriore strategia usata dai ristoratori è speculare rispetto alla freschezza del prodotto, comprando maggiori quantità più prossime alla scadenza a minor prezzo, che saranno consumate quindi in periodi brevi, magari al week-end, quando orde di persone si riversano nei locali giapponesi.

Cosa ci rende più felici di mangiare una cosa buona, bella e a volontà? Mangiarla anche a prezzo moderato. Secondo Statista, nel 2017 un terzo degli italiani spendeva fra i 20 e i 30 euro per andare a cena fuori. Collocare il tetto fisso del sushi nei ristoranti all-you-can-eat in questa fascia monetaria lo ha reso sicuramente appetibile alla maggioranza della popolazione italiana che non fa parte della fascia alta. Di nuovo, il sushi ci ha accontentato tenendo un occhio vigile sul nostro portafoglio e un altro sulla nostra fame di consumismo.

Comparando il piacere derivato dal mangiare sushi con la quantità ingerita, sarà evidente che l’apprezzamento sentito al primo nigiri non sarà lo stesso al ventesimo, poiché il nostro livello di sazietà sarà aumentato. Se il costo del sushi fosse proporzionale alla quantità ordinata, nel momento in cui lo stomaco fosse satollo, e quel piacere provato pressocché nullo, smetteremmo di mangiare perché frenati dal dover spendere ulteriormente e, a maggior ragione, con poca gratificazione. Ma, essendo il costo fisso e non influenzato dal numero di ordini effettuati, non è necessario modulare il proprio piacere una volta raggiunto il limite di sazietà, sfruttando quindi fino all’ultimo secondo di bontà che il sushi ci regala.

L’industria del sushi ha cavalcato l’onda della globalizzazione e “dell’esoticità” come simbolo di status sociale, sebbene tralasciando un elemento importante nell’incontro fra culture, quale il significato del prodotto originale. Essa ha sì favorito la diffusione del sushi, ma in una concezione legata alla quantità e alla possibilità di “eccedere”, a discapito dei principi di equilibrio ed armonia che questa pietanza profonde nella cultura giapponese.

Dunque, visti i volumi spropositati di questo commercio e i concetti che porta con sé, è lecito considerarlo una fra le tante mode di massa? Sì. Nell’ultimo decennio, come tutti i trend suoi coetanei, ha usufruito largamente di Instagram come piattaforma social dove apparire al meglio di sé, in foto dai colori vivaci con l’hashtag #foodporn e la fama di cibo salutare (l’apporto calorico è comunque bilanciato, se non ci si ingozza, grazie ai carboidrati del riso, alle proteine e ai grassi del pesce).

È una moda che si estinguerà? Probabilmente no, chi lo sa. Ma non sarà sicuramente l’unica. Quindi, nel frattempo, via alla gara: chi riuscirà a mangiare per tutta la durata della cena il sushi con le bacchette vincerà. Il premio? Altro sushi.

Luisa Burdino