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A VOLTO COPERTO – IL DELITTO MUSY

Alberto Musy, il 21 marzo 2012, è un torinese di quarantasei anni perfettamente realizzato: consigliere comunale UDC, avvocato (con studio ereditato dal padre e gestito insieme alla sorella/collega), docente universitario, sposato e padre di quattro figlie. L’area in cui si muove è il centro destra moderato, ma questo non gli ha impedito di prendere posizioni forti, in un mondo dove esporsi è temerario, distinguendosi in due ambiti: la richiesta di legalità ai “Murazzi”, dove la movida del capoluogo piemontese si muove tra locali non sempre in regola; ma, soprattutto, la questione Tav: riguardo alla quale egli si era espresso con molta chiarezza a favore, lamentando una disinformazione ventennale, e la necessità di riportare Torino a fasti ormai persi, collocandola in un “corridoio” cruciale per la mobilità europea.

Quel giorno, prima di recarsi in studio, Alberto accompagna a scuola le figlie, compito che svolgeva di buon grado, benché la moglie non lavorasse fuori casa: lo descrivono come padre e marito premuroso e attento, una vita senza ombre. Di ritorno dalla scuola, improvvisamente, nella corte del signorile palazzo in cui vive, gli si presenta dinanzi un individuo incappottato, con il casco in testa, che gli spara e fugge. L’avvocato morirà dopo diciannove mesi di coma, senza riprendere conoscenza, il 22 ottobre 2013.

Le indagini annaspano finché, mettendo insieme testimonianze varie, filmati di telecamere, studi antropometrici e situazioni in cui la vittima si aggirava in veste politica, viene individuato il possibile colpevole: un ragioniere calabrese, torinese d’adozione, più o meno coetaneo di Musy. Francesco Furchì, che verrà poi condannato all’ergastolo. Movente: invidia e frustrazione. Per buona misura nel 2020 arriverà anche una condanna per maltrattamenti alla moglie.

In dibattimento si ipotizza (più che provare) che Furchì, un fallito sempre in cerca di un posto al sole, abbia tampinato per anni Musy, sua vecchia conoscenza acquisita per vie traverse: venendone, a suo parere, abbindolato, usato e gettato, fino a maturare il progetto della peggiore delle rivalse. In questo processo è sfilato un “parterre” di testimoni “eccellenti”, sia per il milieu che circondava l’avvocato ucciso, che per la sua figura di spicco come consigliere comunale: di talché furono convocati l’ex sindaco della Mole e già presidente della regione Piemonte, Sergio Chiamparino e l’ex ministro Salvo Andò.

Sul calabrese leggiamo ( Fatto Quotidiano) “L’imputato… con aspirazioni in politica e negli affari legati alla politica, era stato presentato a Musy per aiutarlo durante la campagna elettorale a sindaco del 2011 da un professore della facoltà di giurisprudenza dove Musy insegnava. Le indagini della polizia durarono quasi un anno: a stringere la rete attorno a Furchì fu proprio il docente che lo aveva presentato a Musy, Pier Giuseppe Monateri: mentre era intercettato dalla questura parlando con una amica disse di aver riconosciuto le sembianze dell’imputato sotto il casco dell’uomo che camminava in via Barbaroux…”

Furchì aveva fondato l’associazione “Magna Grecia”, con sede a Torino, che doveva unire la cultura calabrese con quella piemontese (afferma lui in udienza): operando, a suo dire, un proficuo scambio per mera spinta idealistica e non certo per costituire un gruppo di pressione che, con il suo potenziale bacino elettorale, potesse far gola al defunto.

Altre nubi vengono addensate sulla sua figura: Magna Grecia stava fallendo, il matrimonio di Francesco pure, il tentativo di rilevare una società era andato a vuoto, sempre per il rifiuto di Musy a una favorevole mediazione. Furchì era disperato, sostanzialmente frustrato e furibondo per essere stato “scaricato” dal mondo politico locale, per cui si sarebbe tanto speso. La figura cristallina e vincente di Musy lo ossessiona e decide di farla pagare a lui, per le delusioni accumulate nel tempo. Grosso modo sono tutti schierati a favore di questa tesi, con pieno appoggio degli studiosi del linguaggio e suoi derivati, che ormai ci propinano regolarmente le loro tesi basandosi su una preposizione, una smorfia, un sospiro.

Ora passiamo ai pochi che hanno costruito uno scenario diverso e meno sfavorevole al condannato. Si legge su Panorama, in un articolo di Carmelo Abbate del 25 novembre 2015, una sorta di requisitoria difensiva che sintetizziamo noi: Furchì non poteva sapere a che ora si sarebbe mosso il suo obiettivo che, da libero professionista, usciva a ore sempre diverse e, nel trasporto delle figliole, si alternava alla moglie a seconda dei giorni, senza un calendario prestabilito; la telecamera che inquadra il killer mentre si avvicina non lo rileva nei giorni o settimane precedenti, nemmeno per un sopralluogo, indispensabile in questi casi.

Invece, notiamo noi, l’inquadratura ci consegna un passante sospetto un tizio con mascherina. Quest’ultimo soggetto è piuttosto interessante. Nel 2011 non era stata ancora imposta la tortura della mascherina: chi avrebbe potuto indossarla se non chi aveva motivo per travisarsi?

L’avvocato è stato attinto da quattro colpi di una pistola che non verrà mai trovata e giace sul suo sangue che scorre copiosamente; nondimeno, avrebbe trovato la forza di dire, non si sa bene in che sequenza, diverse frasi, tipo: “In che razza di mondo viviamo, che arriva uno e ti spara senza motivo?” Prima di cadere in coma, alla moglie, parlerà di un pedinamento, di un attentatore robusto con impermeabile scuro, casco bianco e pacchetto in braccio, la bocca sigillata da un nastro adesivo; e di aver notato un motorino. Ma Musy conosceva bene Furchì: possibile che non lo abbia identificato nemmeno vagamente?

Secondo l’accusa Furchì era vittima del proprio velleitarismo; quel giorno stava sbaraccando la sede dell’associazione fallita, con l’aiuto di due brasiliani, come copertura; si allontanò con una scusa per andare a uccidere Musy e poi sgattaiolare da qualche parte.

Primariamente ci incuriosisce l’affermazione di uno dei due brasiliani al processo: egli afferma di trovarsi a disagio, nel ruolo di testimone, poiché in Brasile chi accetta di farlo è un infame per definizione e rischia la vita. Davvero il Brasile moderno è così tribale? Se qualcuno si limita a parlare di una circostanza, che non danneggia nessuno e va a favore anche di personaggi in vista, che rischia? Il signore aveva paura di un ruolo pericoloso in Brasile, ma siamo in Italia: alludeva alla Calabria? Sia detto questo solo perché su un sito (Newsandcom.it) si parla di delitto su commissione “con soldi calabresi” (30.000) euro, emerso da intercettazioni tra la sorella di Furchì e un amico del consigliere ucciso.

Non meno ci colpisce la potenza di fuoco contro tale signor Filippis e la moglie, accusati di aver fornito l’arma mai trovata. Tralasciamo ciò che afferma Chiamparino: molto diplomatico, presto lasciato andare senza pressarlo.

Salvatore “Salvo” Andò, invece, nega recisamente un caposaldo dell’accusa: che Furchì si sarebbe compromesso con Musy, al fine di caldeggiare la carriera universitaria del figlio dell’ex ministro socialista: e, ricevendo un rifiuto ad aiutare questa candidatura, ne avrebbe ricavato una ulteriore mortificazione delle sue ambizioni.

C’è di che sconcertarsi, perché il calabrese è una nullità rispetto ad Andò, non ne è nemmeno corregionale (a voler pensar malissimo, per ipotesi): il politico siciliano avrebbe avuto bisogno di questo signor nessuno, per aiutare il proprio figlio? Questo sarebbe sì, un mondo strano, perché di solito, ci dicono, le raccomandazioni funzionano diversamente, dall’alto al basso, e non viceversa, e con l’aspettativa di una lauta ricompensa, che casomai Furchì avrebbe dovuto attendersi da Andò, non da Musy.

Come in molti processi che si rispettino, arriva però l’asso nella manica: un signore che non vogliamo nominare (ma in televisione se ne fa un cognome), chiamiamolo Mister X. Costui, pregiudicato per truffa, ricettazione e calunnia (fonte, sempre Abbate), sedicente agente segreto al servizio del generale Pollari (attività mai provata), forte accento genovese, accusa Furchì, suo compagno di cella in attesa di giudizio, di aver confessato il delitto, avergli rubato nell’armadietto, aver defecato e urinato in cella e sulle sue cose; di non aver ricevuto riscontro dalle guardie carcerarie a cui indirizzava le sue proteste e i rapporti: di fatto, in aula, ne ascoltiamo e vediamo una sola, che nega sostanzialmente le affermazioni di Mister X. In carcere, in attesa della sentenza, Furchì è stato malmenato.

Ci rivolgiamo infine alla difesa, un team che ha tentato ogni strada, segnatamente una che spicca nei rari momenti in cui “Un giorno in Pretura” ne riporta le argomentazioni. La Polizia sostiene di aver controllato i tracciati telefonici dei gestori di locali ai Murazzi, e nessuno era nei pressi del luogo del delitto quel giorno; come se, fa notare uno dei difensori, chi parte per ammazzare, facesse la cortesia di portarsi dietro il cellulare: errore forse da anni novanta, non da 2012, e non da parte di un esperto malintenzionato. Quel genere di personaggi l’aveva a morte contro Musy.

Sappiamo dove fossero, questi portatili di proprietari di pub, buttafuori e compagnia? Perché se non erano nei paraggi, ma spenti, varrebbe la stessa presunzione di innocenza anche per Furchì, il cui apparecchio si collega e scollega varie volte nella giornata, forse a seconda del ripetitore o di altre capriole connettive di questi dispositivi.

Non siamo esperti della topografia torinese, e nulla possiamo analizzare riguardo il tragitto dalla sede di Magna Grecia al luogo del delitto, che per molti non era percorribile ai piedi nei tempi forniti dall’accusa; né si è mai sentito che Furchì si fosse mosso in motorino (come suggerito dalla stessa vittima in agonia pre – coma), che infatti non è inquadrato da nessuna parte.

Non è stata battuta, infine, la pista politico/sociale, con le posizioni pro TAV della vittima, così impopolari al tempo.

Una cronaca: “No TAV, arrestato a Bussoleno…ex terrorista di Prima Linea e attivista No Tav. Ai domiciliari, deve scontare una pena di 5 mesi per resistenza a pubblico ufficiale, reato commesso il 17 settembre 2015 durante una protesta al cantiere della Torino-Lione. Negli anni Ottanta Milanesi faceva parte di una colonna di Prima Linea che proprio in Val Susa aveva creato la sua base. È ritenuto un No Tav della prima ora; Milanesi ha infatti aderito al movimento sin dall’inizio della lotta alla nuova linea ferroviaria ad Alta Velocità. Il Messaggero.it, 17 settembre 2020.

Musy aveva impavidamente sfidato la malavita dei night e gli oltranzisti antagonisti: potrebbe aver pagato altro che non sia solo lo smacco di un uomo senza arte né parte?

Carmen Gueye

Riguardo l'autore

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Carmen Gueye genovese laureata in lettere antiche, già pubblicista e attiva nel sociale, è autrice di romanzi, saggi e testi giuridici