Siamo alla fine di quegli anni ottanta, quando Raf si chiedeva, cantando, cosa ne sarebbe restato. Tra i regali di fine decennio, piazza Tienanmen e la caduta del muro di Berlino, arriva un fatto di cronaca formalmente risolto, ma dai bordi mollicci.
Parma, città opima e colta, è il teatro della storia, in realtà mai veramente raccontata. Tutto quello che sappiamo è che la famiglia Carretta è formata da Giuseppe, contabile, la moglie Marta, e due figlioli: Ferdinando, nato nel 1962 e Nicola, classe 1966. Quest’ultimo da sempre viene ricordato come tossicodipendente. Il 4 agosto è vigilia di vacanza, la coppia ha già stivato il suo camper di provviste: dovevano partire tutti e quattro? Non si sa. Occupazione dei fratelli? Non pervenuta. Clima in famiglia? Mai testimoniato da alcun parente. Certo è che nessuno vede più la coppia e il figlio minore. Sappiamo quello che è emerso in seguito…ma lo sappiamo poi davvero?
Pur tenendo conto di un tempo ancora senza cellulari e web, anzi a maggior ragione, supponendo che, com’era uso piccolo borghese, ci si salutasse prima delle ferie, nessuno si stupì del silenzio dei due? Forse era gente riservata, ma Ferdinando c’era: nessuno zio o nonno pressò per sapere qualcosa? Ci fu dunque bisogno di una telefonata (anonima) al neonato programma “Chi l’ha visto?”, qualche mese dopo la sparizione, per ritrovare il caravan parcheggiato a Milano.
A parte un intervento dell’ancora sconosciuto magistrato Antonio Di Pietro, che insisteva per indagare sulla morte degli scomparsi, non si registrò un particolare interesse verso la sorte del terzetto, dato in fuga in Nordafrica o ai Caraibi: forse dopo un colpo di mano di Giuseppe, sospettato di aver sottratto fondi alla ditta (peraltro non arriverà mai alcuna denuncia) o di aver finanche praticato il narcotraffico.
Senza sorveglianza alcuna il superstite Ferdinando taglia la corda e nessuno lo vedrà per nove anni. Domanda: bollette, pagamenti, questioni in sospeso, nessuno si è posto il problema?
Per fortuna l’Interpol funziona, a quanto pare, e a causa di una multa, nel 1998, Carretta viene pizzicato a Londra per un’infrazione stradale; vive lì da tempo, secondo i fankazzistici dettami di un certo tipo di italiano che si invola sul Tamigi, lavoretti, sussidio, casa assegnata, tutto utilizzando il secondo nome: altro che dottrina Mitterrand, questa cos’è, la dottrina di Elisabetta? Tutti gli scarti d’Europa vengano a me…
A quel punto l’emaciato giovane confessa a valanga a un giornalista della citata trasmissione, per un supposto senso di rimorso: odiava tutta la famiglia, soprattutto suo padre; quella sera, con una pistola, non si sa a chi presa e mai trovata – è lui solo ad attestarne l’esistenza – ha sparato, ripulito, trasportato i cadaveri in una discarica, portato il camper a Milano, fuggendo subito dopo.
Seguiranno tutti rilievi del caso, con i RIS di fresca gloria, ma in realtà non si troverà una prova che è una. Tuttavia, c’è la confessione, o almeno a noi solo quella è stata offerta, non considerando che esiste anche il reato di autocalunnia. Di riffa e raffa, causa insanità mentale riconosciuta dai periti, l’assassino passa pochi anni in carcere, altri in riabilitazione ed esce nel 2015. Egli dichiara seraficamente ai giornalisti di aver concordato la spartizione dell’eredità con una zia e di voler essere dimenticato. Domanda: perché in Italia non funziona come negli Stati Uniti e si può trarre profitto da un crimine?
Infine: davvero il Luminol avrebbe riscontato tracce di sangue lasciate un decennio prima? Perché dunque non abbiamo ancora risolto crimini con i corpi disponibili? Domande destinate a rimanere…
Carmen Gueye