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Una nuova casta animale?

Richiamare alla memoria elegiache ricordanze dell’infanzia e della prima giovinezza è stucchevole, ma talora inevitabile transito da una fase in cui il pensiero era incontaminato, in “tempi non sospetti”; e, se si ha qualche anno sulle spalle, obbligato passaggio dal cantiere che ha costituito l’edificio della nostra formazione.

I primi animali della nostra vita furono quelli dei nostri nonni, nelle “vecchie fattorie” di una volta, in un sud se non profondo, molto deciso: laddove Cristo secondo alcuni non era arrivato, ma a noi pare fosse invece presente e pulsante nelle coscienze.

Bovini, ovini, suini, come si leggeva nei libri di geografia regionale, ma pure cavalli (pochi) asini, muli, cani da guardia e da pastore, gatti vispi nell’agguantare roditori e rettili: ognuno agiva il suo ruolo, di supporto al genere umano che allora, nell’universo mondo e non solo nel nostro mezzogiorno, in larga misura campava la vita con fatica; e in cui era festa grande allorché in tavola si mangiavano un pollo o un coniglio, mentre il pesce era pressoché sconosciuto, salvo eccezioni costiere.

Circa negli anni settanta la situazione economica e sociale in Italia svoltò, con poco tempo per metabolizzare un cambiamento che urgeva e premeva ai piani alti (o profondi, se si preferisce).

Fu così che intere generazioni, allora già avanti con gli anni, ma ancora vispe e produttive, cresciute a kilometro zero senza slogan ecologisti, si sentirono dire che era ora di sposare l’ambientalismo, il sostenibile e, dulcis in fundo, l’animalismo. In nome del nuovo verbo, e con operazioni di stampo europeista, e di più mondialista, si sviluppò la colpevolizzazione dell’umanità onnivora che avevamo conosciuto fino a quel momento.

In attesa che i residuati di quella vecchia mentalità si spegnessero per naturale esito biologico, si provvide a desertificare gli italici e ubertosi campi, dalla fertile pianura padana, alle terrazze liguri, alle colline osche fino alla dura e nera terra calabro lucana e alle piane pugliesi, riservandone solo alcune aree alle produzioni “corrette”.

Per queste scelte in nome delle magnifiche sorti progressive è stato pagato un alto prezzo, morale e materiale: dalla spoliazione delle competenze in materia di agricoltura e allevamento alla cancellazione della memoria, del vissuto, della tradizione, spianando la via a generazioni di tecnocrati o di corsa alle nuove professioni senza un passato e con un incerto futuro.

Prima di sconfinare nella geremiade, intercettiamo subito il tratto che qui vogliamo affrontare, ovvero il rapporto tra uomo e animale.

Forse in passato esso era sbilanciato verso le necessità umane e poteva connotarsi con una certa ferocia, ove necessario, ma pure era ammantato di epicità: fino a identificare delle fusioni in creature mitologiche a sembianza mista e, talora, a divinizzare la bestia tout court.

Nelle civiltà a impronta rurale, prevalenti fino all’ultima guerra, le sinergie con alcuni animali erano tali da divenire vitali per entrambe le specie: dalle scuderie aristocratiche e delle classi afferenti, alla mucca o l’asinello nella stalla dell’umile: che, come nel film “Pane amore e…” alla sua morte provocava un dolore viscerale nel proprietario – in quel caso la procace Gina Lollobrigida, che ancora ricordiamo mentre spronava “ueh Barrò!”.

Quel mondo non esiste più; e oggi il granguignolesco personaggio del sanaporcelle di “Cristo si è fermato a Eboli” rischierebbe gli stessi anni di galera di un serial killer.

La media dei possessori di cani nel nostro paese è oggi altissima, quasi una casta: e non importa se all’albore dell’estate molte di queste bestiole finiscono abbandonate in qualche prato di montagna o sulla classica autostrada, per non parlare dell’allarme cinghiali: l’animale è divenuto un feticcio, quasi un’arma dell’uomo contro il suo simile, in nome di un amore che diventa selezione della specie, rifiuto della socialità, a volte disprezzo del simile.

Le battaglie politicamente corrette presentano lo stesso rischio, quello di partire da buone intenzioni che finiscono col discriminare in nome di ciò che volevano scongiurare: isolamento del non allineato, fanatismo, oltranzismo, intolleranza.

Per questo non possiamo biasimare, per una volta, Papa Francesco, nel momento in cui ricorda, a suo modo, di non dimenticare l’essenza della missione dell’uomo e della donna, quella di avanzare nel mondo; e l’importanza di non sostituire le culle con idoli che abbiamo antropizzato per sostituire il vuoto affettivo che il transumanesimo ha generato.

Abbattere un orso non sarà la miglior scelta della giornata; e non diremo che bisogna piuttosto preoccuparsi dell’Africa dove “i bambini muoiono di fame”, (anche perché non è più vero); ma occorrerà ricordarsi che l’autoeliminazione, il cupio dissolvi e la mancanza di compassione sono il prodotto di una manipolazione che prevede la strumentalizzazione divisiva dell’habitat umano, dove parole come comprensione e fratellanza sono in via di estinzione insieme alla nostra specie. La tolleranza repressiva ha condotto al suo contrario, un’intolleranza mascherata da accettazione. Occorre riposizionare la scala di valori e non nascondersi dietro il rispetto di diversità posticce, create per distruggerci.

Carmen Gueye

Riguardo l'autore

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Carmen Gueye genovese laureata in lettere antiche, già pubblicista e attiva nel sociale, è autrice di romanzi, saggi e testi giuridici