Estate 1978. Anni difficili per l’Italia, terrorismo, omicidi di mafia, recessione; la primavera avanzò con il rapimento e la successiva morte di Aldo Moro a maggio, a opera delle Brigate Rosse.
Il 6 agosto si spense Paolo VI, pontefice proveniente dal bresciano, di vecchia scuola e origini altoborghesi, succeduto al quinquennio del popolare Giovanni ventitreesimo, il “papa buono“, di famiglia contadina della bergamasca.
Paolo VI, in carica dal 1963, paragonato al predecessore, era apparso troppo distante dal popolo, ascetico, per molti irresoluto. Ricordiamo, a chi non c’era, che negli anni settanta c’era molta più irriverenza verso queste figure, imitate nelle radio libere, o cantante nella disco music (“Wojtyla disco dance” fu un successo del dj Freddy the Flyng Dutchman, nel 1979).
Per favorire un riavvicinamento ai credenti, o pensando a un intervallo di riflessione in attesa di trovare un candidato “solido”, alla fine il conclave se ne uscì con l’elezione di Albino Luciani: aria mite, voce quasi di fanciullo timido, già patriarca di Venezia. L’ultimo incarico di Albino è da evidenziare, visto che le cronache ne hanno spesso narrato come di una sorta di parroco di campagna, arrivato per caso al soglio.
Si impone un inciso sul cardinale statunitense di origini lituane Paul Marcinkus (1922 – 2006). Questi fu presidente dello IOR (Istituto per le opere di religione, in pratica la cassaforte del Vaticano) dal 1971 al 1989 e partecipò diverse volte ai consigli di amministrazione del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, cui aveva ceduto azioni della Banca Cattolica del Veneto, senza avvisare i vescovi locali, motivo per cui entrò in conflitto con il futuro papa Luciani. Si tratta di contrasti sulla gestione di un’azienda, che tale il Vaticano è da un punto di vista laico, subito venduti mediaticamente come guerre sanguinose da basso impero, in un’atmosfera dove si sarebbero aggirati epigoni dei Borgia.
Albino non si limitava a sussurrare, talvolta perdeva la pazienza; magari non con la voce tonitruante del suo successore polacco, ma fermo, quasi testardo nelle sue posizioni, forse impulsivo, costretto a valutare in seguito i rischi cui andava incontro, anche un filo permaloso, riandando a una sua affermazione; “È stato ricordato dai giornali, anche troppo forse, che la mia famiglia era povera. Posso confermarvi che durante l’anno dell’invasione ho patito veramente la fame, e anche dopo; almeno sarò capace di capire i problemi di chi ha fame!» (udienza del 3 settembre 1978).
Classe 1912, originario del bellunese, amante della cultura fin da ragazzo, poliglotta ma restio a mettere in mostra le sue qualità e competenze, non fece in tempo a ricevere l’anello piscatorio, che dovette subito accorgersi di essere tirato da ogni lato come simbolo di una rivoluzione che lui non desiderava.
Forse per la tipologia di percorso che l’aveva condotto in vetta, al momento della proclamazione, il 26 agosto, apparve tremebondo e impaurito, come chi pensasse di essere stato portato in alto solo per farlo ruzzolare con più velocità subito dopo.
Il buon Albino, rassegnato all’indesiderata fama, scelse di appellarsi con i nomi abbinati dei colleghi che l’avevano preceduto e, tra sospiri e occhiate al cielo, si apprestò alla bisogna.
Egli risultò subito amabile a causa della sua – fin troppo esibita – modestia (un ossimoro, in effetti), quasi volesse lasciar intendere in continuazione di essere un povero diavolo inadeguato, che cercava di farsi perdonare l’immeritato onore.
Si dice che in quei soli 33 giorni di pontificato avesse già messo le mani ovunque, preannunziando clamorosi rivolgimenti; e analizzato i conti vaticani, a partire da quelli degli alti prelati, i collaboratori più stretti e, naturalmente, lo IOR.
Visto il ridottissimo periodo in carica, ci sembra davvero singolare che Luciani avesse già messo sossopra il bilancio di San Pietro, improvvisandosi ragioniere.
Veniamo alla ridda di ipotesi sulla sua morte. Oggi ci raccontano che, pur non essendo decrepito (66 anni) Albino aveva una salute malferma, soprattutto problemi cardiaci, e l’aspetto macilento lo rifletteva; già alcuni suoi prozii erano morti di attacchi improvvisi (uno, raccogliendo patate). Una volta egli se ne lamentò con un interlocutore, alzandosi la veste: le gambe, a detta di chi le vide, erano “due tronchi viola“.
Pare non si dovesse dire che a scoprirlo morto fu una monaca, perché donna, da qui il pasticcio nella versione definitiva, che poi attribuisce il rinvenimento al segretario; si discusse sull’opportunità di un’autopsia, poi si decise di non farla, concordando sulle cause naturali. Albino era una figura fuori schema, che piaceva alla rockstar Patti Smith e suscitò, forse, più speranze di quanto avrebbe potuto realizzarne.
Vent’anni dopo, in epoca di gestione Wojtyla, i cospirazionisti anticlericali trovano altro pane per i loro denti.
E’ il 4 maggio 1998 quando nuovamente una suora, di passaggio per i corridoi, scopre che in un appartamento della Città del Vaticano s’è appena compiuta una tragedia. Naturalmente la monaca viene colpita da una porta socchiusa, aspetto filmico presente in varie cronache.
Alois Estermann, da Lucerna, 44 anni, è fresco di nomina a comandante delle Guardie Svizzere e prevede di festeggiarla con la moglie Gladys, di qualche anno maggiore di lui, addetta culturale presso l’ambasciata del suo paese, il Venezuela (non hanno figli).
Ciò non avverrà, poiché i due vengono assassinati a colpi d’arma da fuoco; dentro la stanza c’è anche l’apparente colpevole, la guardia semplice Cédric Tornay, lui pure ovviamente svizzero, ventiquattro anni, suicida dopo il duplice omicidio.
Il famoso portavoce vaticano di allora, Joaquin Navarro Valls (membro laico della prelatura cattolica dell’Opus Dei), organizza una veloce e solitaria conferenza stampa, in cui spiega l’accaduto, nel dichiarato presupposto che l’autopsia, non ancora effettuata, avrebbe confermato le loro celeri conclusioni.
Il posto di comando delle guardie svizzere era rimasto vacante relativamente a lungo, e Alois ne era stato reggente prima della nomina, si dice tardiva per esitazioni riguardo le sue umili origini. C’è chi attribuisce i suoi galloni al fatto che compariva sulla macchina di Giovanni Paolo II, subito dopo che Alì Agca lo aveva colpito, come addetto al servizio d’ordine.
Sia per questo, per la sua severità (che i tratti del viso denunciavano) o per giusti meriti, Alois era finalmente giunto al vertice. Pare fantasiosa l’ipotesi secondo cui egli avesse fatto parte dei servizi segreti della Germania Est. Lo status di spia piace in particolare a chi vorrebbe spericolatamente legarlo alla scomparsa di Emanuela Orlandi.
Il bellissimo Cédric, dal canto suo, aveva mostrato, quando smontava dal turno, di gradire la dolce vita romana, aveva una storia con una ragazza del posto e non apprezzava particolarmente lo status militare: tanto che Alois lo aveva formalmente ripreso e gli aveva già annunciato che, alle sue dimissioni, non avrebbe ricevuto la medaglia “Benemerenti“, che non si nega praticamente a nessuno.
Cédric era dunque in via di allontanamento e si preparava ad affrontare colloqui di lavoro. La madre, ospite di Augias, sosteneva che il figliolo era stanco di quell’ambiente e da tempo aveva in mente di andarsene.
Dicono che Cédric avesse progettato, come molti ex colleghi dopo quel faticoso servizio, di sfruttare le referenze per entrare in qualche agenzia di security elvetica e temeva che la mancata medaglia lo avrebbe evidenziato come soggetto meno raccomandabile. Per questo avrebbe compiuto la strage?
Si è sussurrato di piste passionali a sfondo sessuale, ma ci restano solo illazioni.
Il Vaticano è una monarchia assoluta e nessuno poté entrare a porre qualche domanda a testimoni o dipendenti: i giornalisti erano esclusi, i parenti delle vittime pure, almeno quelli di Cédric.
Il tribunale vaticano ha tre gradi di giudizio, insindacabili, e il processo fu archiviato nel febbraio 1999. Sembra ci fosse una gran fretta perché il giubileo era vicino.
La famiglia di Tornay però sostiene di averle provate tutte per entrare in possesso di qualche atto e ha proposto un’autopsia molto più approfondita e a pubblica disposizione di quella vaticana, che giudica il ragazzo alterato da una cisti al cervello; la combattiva mamma dichiara di aver resistito alle pressioni di alcuni addetti vaticani, che cercavano di convincerla a far cremare il figlio perché “già decomposto” (evidentemente il Vaticano non disponeva di celle frigorifere).
Gli esperti balistici sentiti negli anni escludono che Tornay abbia potuto spararsi in bocca inginocchiato e con l’arma di servizio; la lettera d’addio che (anche lui!) avrebbe lasciato è messa in dubbio dalla mamma, per lo stile del tutto diverso da quello abituale del ragazzo e clamorose inesattezze. Essa fa supporre una premeditazione, mentre il verdetto finale parla di raptus dovuto al rancore, combinato con le cattive condizioni di salute di Cédric, affetto pure da polmonite, sempre da referto vaticano.
Nondimeno non si deve cercare il complotto a ogni costo. Il Vaticano è una sede di lavoro e all’ alba del terzo millennio i giovani arruolandi presentavano un’attitudine più gaudente e meno remissiva che in passato. Vegetava probabilmente qualche atmosfera non limpida e il vertice ha lavato i panni sporchi in famiglia.
Per ora è tutto e i teorici della chiesa corrotta dovranno cercarsi altro di cui parlare. Potrebbero occuparsi, per esempio, del codice Ratzinger, del doppio pontificato dal 13 marzo 2013 fino al 31 dicembre 2022, che nessuna obiezione ha sollevato nei media mainstream; e di un papa argentino che sembra piegato alle torsioni etiche della modernità.
Carmen Gueye