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Marco Pantani, ovvero, della morte mediatica

Romagna mia, Romagna in fiore, tu sei la stella, tu sei l’amore…”. Per quanto lontano ci si collochi, quanto a gusti musicali, dal noto classico folk, tormentone delle vecchie serate di liscio, il pezzo resta nel cuore e trasmette allegria; esso rimanda a visioni di balli nei cortili delle fattorie dopo il raccolto, bicchieri di vino che si levano frequenti, donne con le rosse gote e la vitalità femminile più generosa d’Italia, uomini vigorosi e un po’ tracotanti: luoghi comuni, ma simpatici.

E che dire della riviera, oggetto di nostalgiche risonanze felliniane, di richiami ai vitelloni e alle vichinghe in cerca del calor latino, ma pure simbolo delle vacanze a buon mercato per famigliole prima, poi imitazione di una casereccia Ibiza?

Ci fermiamo qui, perché l’amarcord è miglior appannaggio di altri. Noi iniziamo dal gennaio 1970, un inverno a Cesena, in cui nacque un bambino magro e vispo, di nome Marco. Papà Ferdinando e la moglie Tonina, da Cesenatico, sono una coppia conosciuta nella cittadina, lei vende le piadine sul lungomare. Qui nasce la prima leggenda, secondo cui il figlio ragazzino avrebbe “gareggiato” la prima volta, con gli amichetti, su un velocipede da donna sottratto alla madre, che poi lavava nella vasca da bagno, con l’affetto riservato a un cane di famiglia. E si svela che, nonostante o forse proprio perché nato in pianura, il futuro campione ama le salite, ne è stimolato, eccitato, le cerca, le scorge anche camminando a caccia col papà e se le segna per la sfida successiva in solitario, in attesa della sua occasione.

Gli esordi, le peripezie per arrivare al top, gli incidenti su strada, prima e dopo la notorietà (uno sembrò averlo tagliato fuori dalle corse, ma i medici e la sua volontà di ferro lo rimisero in pista), tutto è stato detto. Mingherlino, adatto alle gare di fatica pura, look da “pirata”, bandana e orecchini, col quale fu rinominato dalla stampa, Marco fa rivivere i fasti del passato: unico italiano, dopo Fausto Coppi, a guadagnare Giro e Tour nello stesso anno, ma senza un suo Bartali per far ricamare i giornalisti, né particolari dame al suo fianco, a parte la nordica Christina, sparita quando la fortuna girò le spalle (secondo alcuni, la ragazza abortì volontariamente e Marco ne fu ferito profondamente, fonte gossipetv.com).

Il re è solo, non ha un caro nemico, né una donna per sostenerlo: babbo e mamma, oltre a una sorella, se lo vedono sfuggire dalle mani e assistono impotenti al dramma, che culminerà nella morte, datata ufficialmente in un triste San Valentino del 2004.

Negli ultimi anni la sua figura è tornata alla ribalta da quando, nel 2014 circa, parve verificarsi un ritorno di fiamma giudiziario, dopo il nulla di fatto iniziale, e nonostante le invocazioni della famiglia, che non ha mai smesso di chiedere la riapertura delle indagini.

Occorre un breve riassunto, prima del bagno di sangue che attende chi mette le mani in questa articolatissima e triste vicenda.

Marco è sugli scudi, dopo il doppio alloro conquistato nel 1998, tutto par viaggiare col vento in poppa, carriera, amore, guadagni, popolarità alle stelle, fino alla tappa di Madonna di Campiglio/Aprica, il 4 giugno 1999. Ci svegliammo, il giorno dopo, sull’onda del clamore di quella discesa agli inferi: Pantani positivo al doping, lascia il giro, scandalo.

Non riusciamo neppure a immaginare, al netto di ogni opinione complottista, quanti polsi abbiano tremato in quei giorni: e sarebbe bastato un giro di intercettazioni ben fatto per appurarlo, ma non sappiamo se qualcuno vi abbia, se non provveduto, almeno pensato.

Fino a quel momento, a meno di non essere appassionati al tema, poco si maneggiavano termini e calcoli riferiti alle condizioni fisiche degli atleti. Solo il calcio era stato brevemente nel mirino, proprio in quel periodo, dopo un’inchiesta torinese partita da un certo discorso sulla Juventus che, secondo certi osservatori, porterà all’insider job della sua provvisoria calata in B, nel 2006; ma, a parte un attimo di smarrimento dovuto al libro dell’ex calciatore Carlo Petrini, morto nel 2012 dopo aver sparato a zero sull’ambiente e individuando la causa del suo prossimo decesso nelle porcherie di cui vengono inzeppati i calciatori, alla fine tutto tornerà allo stato di quiete.

Riportiamo: “…I medici dell’UCI…riscontravano nel sangue di Pantani una concentrazione di globuli rossi superiore al consentito: il valore di ematocrito rilevato al romagnolo era del 51,8%, di poco superiore al margine di tolleranza dell’1% sul limite massimo consentito dai regolamenti, 50%…”. Ci è toccato tornare su ricordi sepolti dal tempo, nascosti in vecchie letture dimenticate, a scene color seppia di antichi corridori intenti, nelle tratte meno impegnative, a spararsi pere di eroina nelle gengive: leggenda o realtà?

Il nome sorteggiato per portare alla luce gli scheletri di tutti gli armadi fu quello di Marco Pantani. Perché proprio lui, è la domanda che aleggia da più di un ventennio, ma vediamo con ordine, o almeno col minor disordine possibile e partiamo dal carattere dell’uomo, dai difetti delle sue virtù: tenace, caparbio, ostinato, fino a sfiorare il vittimismo, che lo portò a dire, dopo la vittoria a Madonna, dunque subito prima del test fatale (cit.): “… Non rubo nulla a nessuno, le mie vittorie sono tutte sudate. E poi, quando ero io a essere in difficoltà, nessuno m’ha mai regalato nulla”.

Sappiamo quante retromarce e scuse imbarazzanti abbiano costellato altre carriere, prima e dopo il break di Pantani, e basti pensare al suo nemico storico Lance Armstrong, che qualcuno indica come principale beneficiario dell’imboscata al cesenate, alludendo scopertamente a congiure, combine e pastette. Una sola voce si è levata, negli anni, a sua difesa, quella del collega Mario Cipollini, il bel lucchese in alternanza tra corse e pose fotografiche, che ne evidenziavano lo statuario fisico senza vestiti; e, dal punto di vista umano, il fuoriclasse in pensione Felice Gimondi, scomparso nel 2019, che però prese le distanze da certi ambienti; e invocò la non “retroattività” di certi giudizi, in quanto ai suoi tempi sarebbe stato diverso.

Dal canto suo Marco non si sottrasse al ruolo di portavoce della categoria, troppo pressata sul fronte delle analisi del sangue a sorpresa; “non siamo donatori”, asserì, con una piccata serietà che non dovette guadagnargli le simpatie dell’establishment.

I compagni di squadra furono solidali all’inizio, poi dovettero proseguire la propria corsa in strada e nella vita, a prescindere. La federazione francese fu durissima col nostro corridore, vietandogli l’accesso al tour con motivazioni improntate a un moralismo integralista: quando, ad oggi, ancora non si è ben saputo con quali parametri sia stata effettuata l’analisi, visto che il linguaggio biomedico è competenza di una ristretta élite professionale.

In verità, ma solo dopo diversi anni, un paio di colleghi della scuderia di Marco, la Mercatone Uno, ammise di aver orecchiato qualche chiacchiera nei giorni precedenti l’antidoping, secondo cui il destino del compagno era segnato; seguirono i “rumours” sulle manovre della camorra, che avrebbe ordinato il defenestramento della maglia rosa in carica, con un pretesto o l’altro, per sbancare nel campo delle scommesse clandestine, messe a rischio dai trionfi di Marco: in definitiva, tutto poggia, almeno per noi spettatori, su intercettazioni ritagliate a nostro uso e consumo, non riscontrabili.

Resta il fatto che, a fianco dei molti apologeti di Pantani, chi del suo entourage, chi dell’ultima ora, come giornalisti in cerca di scoop, troviamo anche prudenti detrattori. Infatti, se è vero che tutti i ciclisti si auto – testavano in vista di un controllo, e sarebbe stato facile anche per lui far scomparire tracce di assunzione di “Epo” dalla sera alla mattina di quel 5 giugno; e che l’ente addetto al controllo si sovrapponeva a quello ufficiale, confondendo le acque sui giochi di potere e le leadership dell’ambiente, di certo il campione ne fu atterrato psicologicamente e iniziò ad adombrarsi, a sentirsi accerchiato da cospirazioni e, soprattutto, a ricorrere alle sostanze per dimenticare.

Il Pirata riprese a correre, riuscendo ancora a segnare qualche punto, a regalare sprazzi di genio agonistico ma, per unanime impressione, non era più lo stesso. Come sovente accade, a tutti e in ogni curva dell’esistenza, in stato di depressione non si notano le voci a favore, non si raccolgono gli incoraggiamenti (ad esempio, nel suo caso, quello di Gianni Minà), non si fa caso a chi ti ama: si porta nel cuore e nella mente solo il nemico, vero o immaginario, ci si sveglia la mattina col pensiero fisso di un demone che ti rincorre e ti invade l’anima, e quel fuoco ti consuma.

Marco, tornato single, si mostra in discoteca, più clown che davvero allegro, rimorchia sesso mercenario e, si dice, fuma crack.

La settimana di passione, che lo condurrà alla fine, inizia il martedì precedente il sabato 14 febbraio 2004, ma le testimonianze contrastano e i servizi televisivi, per quanto accurati e accattivanti, non ci hanno convinto. Mettiamo a confronto la girandola di informazioni che abbiamo raccolto.

LA CORSA FINALE

Il campione prende un taxi a Milano e va a Rimini. Il tassista assicura che il famoso cliente non aveva bagaglio, solo un piccolo zaino o sacchetto. I cospirazionisti fanno notare che, nelle riprese della Polizia, si vedono tre giubbotti appesi, non spiegandosi quando e come Marco li avrebbe portati nel mini appartamento dell’hotel residence “Le Rose” di Rimini, dove era sceso e da cui non si era mai mosso, ma si è notato qualche altro capo d’abbigliamento. E’ improbabile che non ci si provveda di almeno un cambio, e non sappiamo come lui fosse vestito in taxi: nelle immagini disponibili, dove è ritratto già cadavere, è in jeans, torso nudo, piedi scalzi, prono. Un confronto tra il tassista e i dipendenti del residence sarebbe stato opportuno, non fosse che questi ultimi, in base ai reportage televisivi, rappresentano la spina nel fianco della narrazione.

Sono proprio loro a garantire che Marco non uscì MAI dalla stanza, smentiti da un vicino barista, che ricorda almeno un ingresso del ciclista, per un caffè. Noi invece avremmo qualche domanda aggiuntiva, per dirne una: come si è nutrito il campione, in quei cinque giorni? Servizio in camera, buffet, ristorante, digiuno totale perché la “roba” lo saziava? Altri, come il suo pusher abituale, assicurano che egli sia uscito eccome, citando quale punto di “approvvigionamento” l’hotel Touring; ma lo spacciatore mancava da Rimini, poiché era “più importante” presenziare alla festa della nipote a Napoli, pertanto inviò un suo fornitore/dipendente: qui notiamo subito che entrano nel discorso circa 20.000 euro, dovuti da Marco al napoletano, prestati e restituibili sulla fiducia. Tuttavia il signore lascia intendere che il suo corriere, incaricato di portare la coca a Pantani, sapeva di quei soldi: una sottile accusa o uno scaricabarile? A quanto pare gli presta fede Tonina, che in un noto programma lo prende per mano e lo convince a visitare insieme la tomba del figlio. Realtà o reality? Resta nell’aria quella somma, mai ritrovata (sembra).

Fin qui, ancorati alla verità ufficiale, il nostro si asserraglia nell’appartamentino, non mangia, beve poco (di certo non ordina nulla), forse chiama qualche escort. In televisione ci hanno mostrato, accuratamente blerate, alcune donne di vita evidentemente ancora in attività, seppure alquanto malandate. Sono passati quindici anni, dal 2004 allo speciale TV, ma il tempo avrebbe lasciato gravi segni, su queste due donne, se donne sono.

Ingenuamente si immagina che, al tempo, Marco dovesse pretendere il meglio nel giro delle meretrici (l’unico in cui ormai pedalava)… o no? Magari era a corto di denaro, e per il sesso “si accontentava”, preferendo far debiti per altro? Un altro trafficante, noto in zona e tra i celebri, disegna Marco come uno strafattone, sempre in fuga, non più sui passi di montagna, ma alla rincorsa di dosi esorbitanti.

Manco a dirlo, sotto accusa sono finite le forze dell’ordine, che avrebbero gironzolato sulla scena senza precauzioni, omettendo di prelevare le impronte; e il medico legale che, sprovvisto del termometro per misurare la temperatura dei cadaveri, ripiega su un esemplare per bambini, che però non scendeva sotto i 34°; si ascolta nel filmato proposto che, se arriva a 34, significa che il corpo è a temperatura ambiente (peccato noi profani non si sappia dopo quante ore, in base alla nota legge fisica, i gradi vadano ad appaiarsi tra salma ed esterno).

Tutto ciò può scandalizzarci, ma un ispettore di polizia allora intervenuto, brevemente intervistato nel 2019, mette un sigillo: la magistratura valuta e decide, evidentemente è sembrata logica l’ipotesi del suicidio, se volontario o accidentale, poco importa, come accaduto per tante star di ogni settore.

Domanda; i contributi visivi riservati al pubblico come sono arrivati ai media? Chi li ha forniti? Risultano originali o tagliati ad hoc?

L’appartamento si presentava sossopra, però gli oggetti erano integri, sembravano poggiati e non scagliati; è ritratta una bottiglia vuota, e dunque si insinua che il deceduto vi avesse diluito la coca e si fosse “ubriacato”; i sanitari del bagno sono al loro posto, accanto al cadavere giace una pallina bianca, anch’essa sostanza, non ancora lavorata per l’uso, ma…chi sostiene che la pallina all’inizio non ci fosse; chi giura che il lavabo fosse stato divelto e poi rimesso a posto; chi non ha visto la bottiglia.

La receptionist di turno, a verbale, dichiara che il campione l’aveva esortata a chiamare i Carabinieri, infastidito da inopportune presenze, ma lei non lo fece; il ragazzo che rilevò il turno successivo contesta l’accaduto (ora, non allora); in una fiction, addirittura Pantani scrive sulle pareti, in preda a delirio psicotico. Le prostitute mettono in dubbio il suicidio e così i pusher. Altre domande:

è possibile che Marco sia rimasto per giorni asserragliato in camera senza acqua e cibo?

Si è proceduto all’esame dei tracciati telefonici?

E’ vero che le telecamere interne erano fuori uso e dunque non si poteva controllare chi fosse transitato dai garage per sgattaiolare in camera di Pantani?

La quantità di cocaina trovata nel sangue dopo l’esame tossicologico ammontava a una dose da cavallo, orbene: è vero che chi ne avesse assunta anche solo un terzo sarebbe morto prima di potersene fare altra?

Quanti e quali psicofarmaci assumeva il ciclista?

Le ferite al capo di Marco erano da caduta, da autolesionismo o da colpi contundenti?

Se la signorina della concierge aveva effettivamente già provato a entrare, prima da sola poi con una cameriera, è vero che non ci riuscì perché la porta era ostruita, ma socchiusa? O la porta era chiusa, ma inattaccabile dal passepartout? In entrambi i casi, non le parve strano?

Insomma, verrebbe da dire: in hotel c’è un uomo famosissimo, sia pure in fase declinante, una presenza ancor più conclamata se si considera che era una star del posto; si infila in camera, lamenta dei disturbi e nessuno se lo fila, ma donnine e spacciatori vanno avanti e indietro indisturbati; si prova a verificare, ma né un borbottio (avvertito da chi bussò) né il successivo silenzio sepolcrale insospettiscono; pare che l’occupante sia morto di sabato mattina (il medico senza termometro non può darci conferme), ma lo trovano la sera verso le 22.30 e dopo mezz’ora i media già ne danno la notizia. La commissione antimafia, allertata per i sospetti di una mano camorrista, ribadisce, a distanza di un decennio, che va tutto bene; decesso per edema polmonare e cerebrale conseguente a overdose, e il sipario si chiude.

Però, Marco, dovevi tener duro. Nessun nemico deve averci.

Carmen Gueye