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L’opinione: basta, basta con la giustizia spettacolo!

Avete fatto caso? Sia la mattina che il pomeriggio le reti televisive, nei suoi talk-show, non si fa altro che ‘’parlare’’ di indagini in corso su omicidi in cui gli intervenenti si autoincensano come ‘’investigatori’’, ‘’giudici’’ … ma questa non è Giustizia ma ‘’inquinamento giudiziario’’, è una «giustizia» che non ha più la «G» maiuscola perché resa non «nel nome del popolo italiano» ma «in nome del popolo televisivo». La rete pubblica (RAI-TV) che da informazione diventa gogna mediatica imponendosi nel fare «processi pubblici» ancor prima di avere sentenze definitive nei Tribunali.

I casi, ancora in corso di indagini giudiziarie, vengono analizzati da giornalisti televisivi con l’aiuto di «profiler» e, a volte, anche magistrati in pensione. La nostra Costituzione ci dice che «nessuno è colpevole» fino all’emissione di una sentenza definitiva. Invece, in queste trasmissioni mettono alla «gogna pubblica» indagati e, a volte, persino non indagati di fatti criminosi ancora in fase di indagine e gli ascoltatori «divorano» , letteralmente, ciò che giornalisti e profiler dicono rendendo la persona sulla quale si concentra la trasmissione «colpevole» e già condannato IN NOME DEL POPOLO TELEVISIVO.

Processi mediatici ante processi penali che condannano, in nome del popolo televisivo, chi ancora non è giudicato penalmente e quindi basato su risultanze processuali o verità processuale. La competenza giuridica dell’inquirente giudiziario passa al corrispondente giornalistico o alla «profiler» di turno che «interrogano» vicini di casa e amici/nemici al bar escludendo a priori l’eventuale innocenza del soggetto «preso di mira».

Giudici e boia esecutori di una «condanna mediatica» dove il linguaggio tecnico fa subito presa sul quisque de populo che vi ricorre non solo per darsi un tono ma anche per ammantare di competenza la propria opinione, in contrasto con la coscienza umana e, soprattutto, con il sistema processuale giudiziario senza la celebrazione di quelle udienze che vedono sfilare testimoni e consulenti nelle aule dei Tribunali. È la «sentenza mediatica» dell’uomo medio che avverte la necessità di dover dire la sua in ordine alle responsabilità connesse a un fatto delittuoso e non importa se così facendo anticipa valutazioni che spettano alla sola autorità giudiziaria.

La frase «lasciamo che la giustizia faccia il suo corso» è ormai un lontano ricordo. La sacralità, che per oltre 2000 anni ha accompagnato la figura del magistrato – si pensi che nella Roma arcaica la giustizia era amministrata da un Pontefice, una sorta di esperto di tutto, antesignano dello spettatore televisivo, depositario della sapienza giuridica – lascia il posto alla laicità del nuovo collegio giudicante: l’audience.

Nella grande aula virtuale, che è lo studio televisivo, in cui si celebra il «processo mediatico» l’abbonato “appoltronato” pretende un posto in prima fila. Si lascia guidare, con fiducia, dalla mano ferma e sicura del conduttore della trasmissione televisiva. Questi, del resto, con raffinata maestria, consente agli ospiti di rappresentare scenari talvolta incredibili o indicare piste non battute dagli investigatori con l’obiettivo di tenere alto l’interesse su quel caso.

La generalizzata passione per la cronaca giudiziaria, attestata dagli ascolti televisivi, condiziona i palinsesti: è tutto un fiorire di trasmissioni che, già dal titolo, rendono evidente come tre gradi di giudizio non siano sufficienti per giungere alla verità.

«Che vogliono questi giudici… lasciate fare a noi!» sembrano dire i numerosi e prestigiosi invitati dai curricula altisonanti.

L’accertamento definitivo, al quale si perviene all’esito del lungo e complesso giudizio, vale più o meno quanto l’opinione estemporanea di un ospite, che magari non ha letto una riga degli atti processuali.

Tra la giustizia terrena e quella divina, alla quale un tempo si era soliti demandare l’accertamento della verità sostanziale – che, per sua natura, può sfuggire alla capacità umana – si inserisce quella dell’etere che, con tutti i suoi limiti, è certamente la più coinvolgente, suggestiva e appassionante.

Alla guida del «plotone di opinionisti», molto spesso privi di competenza giuridica ma forti di una buona dialettica e della capacità di far leva sui sentimenti degli ascoltatori, si affacciano, con orgoglio, nuove figure professionali.

Ciò che conta, alla fine, è convincere l’opinione pubblica della colpevolezza del soggetto, ancor prima di un processo.

Non importa se per raggiungere questo obiettivo si debba alzare il tono della voce contro chi dissente o non la pensa alla stessa maniera. Per non parlare di chi invita a valutazioni di maggiore prudenza. Cautela e ponderatezza non sempre sono considerati valori. Appaiono più come un segno di debolezza. Tanto più è azzardata l’ipotesi proposta tanto più verrà rilanciata – oggi anche via social – in un tam-tam che la rafforza, la accresce così da attribuirle credibilità. L’oratore televisivo, peraltro, parte avvantaggiato: non deve argomentare le proprie conclusioni e può anche limitarsi a esporre idee o intuizioni.

Anzi, tanto più sono dissonanti rispetto a quelle che hanno ispirato gli inquirenti o che sono state sposate dai magistrati, tanto più verranno apprezzate sul palcoscenico tv. La televisione è un acquario che tende a ingigantire l’immagine di chi vi si immerge.

Il criminologo, il «profiler», a dispetto della rilevanza che ha assunto nell’immaginario collettivo, che lo vede quale unico detentore di cognizioni di ordine sociologico, psicologico, medico-legale che gli consentono di ricostruire la dinamica dei fatti violenti, nel processo penale italiano ha un ruolo tutt’altro che primario.

Può intervenire nella fase delle indagini preliminari, quale consulente degli organi inquirenti, al fine di analizzare il comportamento criminale, oppure dei difensori nelle indagini difensive. Importante, senza dubbio, è l’esame del locus commissi delicti: muovendo dall’analisi psicologica del comportamento umano e dalle informazioni provenienti dall’ambiente, il criminologo offre un’ipotesi delle ragioni che hanno indotto un soggetto a delinquere – movente – e alle caratteristiche della sua personalità. Il criminologo, però, per quanto autorevole e coinvolto personalmente nell’attività di studio e ricerca, costituisce solo una voce che, sebbene qualificata, esprime un punto di vista personale, scientificamente accreditato ma personale.

Il processo mediatico, giuridicamente parlando, è un non processo. Le garanzie per l’indagato/imputato, punto di arrivo di una faticosa evoluzione giuridico-culturale, non trovano applicazione. Il processo mediatico viene di solito celebrato in assenza di contraddittorio. La persona di cui si parla – sovente in termini tutt’altro che lusinghieri -, nell’immediatezza non ha la possibilità di replicare. Non può dare la sua versione dei fatti. Non può difendersi.

Un ruolo centrale, poi, assumono le valutazioni personali, le dicerie, il pettegolezzo becero. Ciò in aperto contrasto con la regola che, nel processo vero, vieta al testimone di deporre sulle voci correnti nel pubblico o di esprimere apprezzamenti personali. Spesso le dichiarazioni rese ai media, da parte dell’indiziato/sospettato, non sono «assistite», nel senso che vengono raccolte in assenza del difensore. Non viene neppure dato l’avvertimento, la cui mancanza porta alla inutilizzabilità in giudizio, della facoltà di non renderle. Si tratta della cosiddetta «facoltà di non rispondere». Il diritto al silenzio è da sempre riconosciuto all’indagato proprio per evitare che possa danneggiarsi, ossia aggravare la sua posizione. Questi, peraltro, deve essere pure avvisato che, se decide di dare una sua versione dei fatti, potrà essere utilizzata contro di lui.

Se davanti all’autorità giudiziaria o alle forze dell’ordine una persona non imputata – ovvero non sottoposta alle indagini – rende dichiarazioni dalle quali emergono indizi di colpevolezza a suo carico, l’autorità procedente ne interrompe l’esame.

A quel punto deve essere avvertita che, a seguito di tali dichiarazioni, potranno essere svolte indagini nei suoi confronti e invitata a nominare un difensore.

Si tratta di una tutela anticipata del diritto al silenzio e del diritto di difesa inteso come diritto a non collaborare con l’autorità che procede. Tutto questo al fine di non vedere compromessa la garanzia del nemo tenetur se detegere – principio di antica e consolidata tradizione -, secondo cui nessuno può essere obbligato ad affermare la propria responsabilità penale, ad auto-incriminarsi.

Queste garanzie non sono previste per le dichiarazioni rese nel corso delle interviste.

E questo è ancora più aberrante se si pensa che si tende ad attuare la prima garanzia tramite i mezzi di informazione: difesa mediatica per l’appunto.

Il sospettato, ma talvolta anche l’indiziato, avverte la necessità di dire la sua tramite i mezzi di informazione così da rendere chiara la propria estraneità ai fatti. Si tratta di una strategia difensiva discutibile, spesso controproducente. Non di rado, le dichiarazioni rese nel corso di trasmissioni televisive sono refluite nelle motivazioni dei provvedimenti cautelari o delle sentenze di condanna. I giudici, in alcuni casi, si sono ulteriormente convinti della responsabilità del dichiarante proprio sulla scorta delle lacune o delle contraddizioni emergenti dalle interviste.

Il racconto dettagliato – secondo una istintiva tendenza a ritenere che una esposizione è più credibile quanto più è particolareggiata – viene poi passato al setaccio da parte degli inquirenti. Il vaglio avviene alla luce degli elementi già a loro disposizione.

Si pensi a colloqui oggetto di intercettazione telefonica o ambientale di cui, ovviamente, l’intervistato non è a conoscenza o almeno non dovrebbe esserlo.

Non sono mancati casi in cui, a inguaiare l’improvvido dichiarante è stata una circostanza, dallo stesso riferita che, in quanto non ancora resa pubblica, poteva essere conosciuta dal solo autore del crimine. Tecnicamente queste dichiarazioni entrano nel processo come documenti provenienti dall’imputato.

Una norma del Codice di procedura penale lo consente.

Una parte della giurisprudenza, tuttavia, opera un distinguo tra interviste televisive e interviste rilasciate ai giornali: solo le prime sono ammesse nel processo penale e non le seconde.

Le registrazioni audiovisive, prive del filtro della sintesi di chi riporta le dichiarazioni su carta, garantirebbero, secondo questa interpretazione, la completa e fedele riproduzione delle affermazioni dell’imputato.

La cronaca giudiziaria, in particolare, deve rispettare dei limiti rigorosi: l’eventuale racconto in chiave colpevolista, in spregio al principio di presunzione di non colpevolezza garantito dalla Costituzione, può costituire fonte di responsabilità, non solo per l’intervistato ma anche per il conduttore della trasmissione e gli altri ospiti della puntata qualora non prendano le distanze dalle dichiarazioni assunte come lesive della reputazione dell’indagato.

Secondo la Cassazione, non possono mai essere espresse valutazioni autonome rispetto alle indagini tali da orientare a qualificare come colpevole l’imputato.

Devono essere evitate ricostruzioni, analisi, valutazioni che prescindano dai risultati dell’attività investigativa.

Resta fermo il diritto/dovere di narrare fatti già accaduti ma senza confonderli con prognosi su eventi a venire e senza indulgere a narrazioni o valutazioni «a futura memoria».

Il mancato rispetto di queste elementari regole porta alla celebrazione di un processo a-garantista (privo di garanzie), il cui unico fine è quello di suggestionare la collettività.

Gli stessi giudici di legittimità hanno evidenziato che, secondo un fatto di costume oggi accettato, è consentito pure rivisitare in talk show televisivi gravi fatti delittuosi oggetto di indagini e persino di processo, nella ricerca di una verità mediatica in parallelo a quella sostanziale o a quella processuale.

Iniziative di questo genere – proseguono gli Ermellini di Piazza Cavour – riscuotono, a quanto pare, apprezzabili indici di gradimento e sembrano inserirsi in un singolare fenomeno mediatico che tende a offrire una realtà immaginifica o virtuale, capace, per forza di persuasione, di sovrapporsi – se recepita in modo acritico dagli utenti – a quella sostanziale o, quanto meno, a collocarsi in un ambito in cui i confini tra immaginario e reale diventano sempre più labili e non facilmente distinguibili.

Gli esposti limiti all’esercizio del diritto di cronaca giudiziaria sembrano segnare la fine della giustizia dell’etere, delle «catodiche camere di consiglio» e delle sentenze rese «in nome del pubblico italiano».

Tutto questo segnerà la fine del processo mediatico? Non credo! Quello mediatico è il processo più seguito perché è il più credibile.

Paradossalmente è quello che rimane più a lungo impresso nella memoria delle persone. Ogni vicenda processuale è infatti legata in modo indissolubile a un periodo della nostra vita (scolastico, lavorativo), un ricordo che ognuno porterà con sé di una vicenda, drammatica, nella quale per fortuna si è rimasti coinvolti solo dal punto di vista emotivo. Per assurdo è come se i nostri problemi quotidiani venissero ridimensionati rispetto all’orrore di certi crimini. Il processo mediatico, assolvendoci da ogni nostro piccolo peccato, ha una inaspettata funzione catartica.

Che sarà mai un litigio condominiale, automobilistico, una reazione violenta sul lavoro quando, una volta a casa, la televisione ci racconta i veri drammi e ci convince che il «presunto innocente» è invece già colpevole.

Questa, forse, è la vera ragione alla base del successo del processo mediatico e della sua longevità.

Marco Affatigato

Riguardo l'autore

Marco Affatigato

nato il 14 luglio 1956, è uno scrittore e filosofo laureato in Filosofia - Scienze Umane e Esoteriche presso l'Università Marsilio Ficino. È membro di Reporter Sans Frontières, un'organizzazione internazionale che difende la libertà di stampa.

Nel 1980 la rivista «l’Uomo Qualunque» ha pubblicato suoi interventi come articolista. Negli ultimi anni, ha collaborato regolarmente con la rivista online «Storia Verità» (www.storiaverita.org) dal 2020 al 2023.