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L’opinione: pianeta giustizia; non solo tribunali e magistrati

I temi della giustizia, dell’esecuzione della pena, delle carceri negli ultimi trent’anni non sono mai usciti dal «dibattito politico» e malgrado i diversi governi (di centro-sinistra, di centro-destra, tecnici) NESSUNO ha mai voluto metterci effettivamente mano. Anzi le poche «riforme» procedurali che sono state fatte, sommandosi alle burocrazie applicative, hanno solo portato ancor maggior insicurezza e inapplicazione e disapplicazione, aggravando la situazione già preesistente.

NESSUNO, almeno fino ad ora, ha voluto prendere il toro per le corna ed effettuare un grande reset ripartendo con punti nuovi e soprattutto fermi.

L’art. 27 della nostra Costituzione dovrebbe essere il faro dal quale mai allontanarsi:

«La responsabilità penale è personale.

L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.

Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

L’Italia può e deve essere uno stato di diritto per una giustizia giusta, una pena o sanzione proporzionata al male commesso. Oggi invece ha optato per sostituirsi alle vittime o dei loro familiari che, giustamente oppure no, chiedono vendetta.

Chi governa il Paese non può né deve abbandonarsi alle «vendette» ma anzi, nel rispetto della Costituzione, deve rendere accessibili percorsi tesi al reinserimento nella società, anche sfidando la presumibile contrarietà della «opinione pubblica» per provvedimenti di clemenza a largo raggio, come può essere una amnistia e un indulto o un condono, ovviamente non estendibili a crimini di sangue e di carattere mafioso e della criminalità organizzata. Questo potrebbe essere lo strumento primario, collegandolo alla «riforma Cartabia», per disingolfare gli apparati di giustizia: tribunali e carceri. Oggi invece ha trovato maggiore spazio, ma con effetti peggiori per le vittime e loro familiari, la prescrizione del reato. Sarebbe quindi il caso che i parlamentari e lo stesso presidente della Repubblica comincino a pensarci. Magari condizionandoli al non compimento di altri reati. Ma questo lo sono già, ma non viene detto. Perché un condannato al quale viene ‘’condonata’’ una parte della pena se delinque nuovamente quella pena condonata viene riattivata.

Mi si permetta un suggerimento: se doveste pensare ad una amnistia e indulto questi non devono essere senza contropartite. Il nostro ordinamento conosce l’istituto della «amnistia condizionata» e dello «indulto condizionato». Il carcere non può essere né deve divenire un luogo in cui far marcire qualcuno. Lo «indulto condizionato» può essere la strada che permette il reiserimento nella società e può rendere credibile l’art.27 della Costituzione, che ispira le più ragionevoli politiche di sostituzione di una pena «ciecamente detentiva» con effettive ed efficaci «misure alternative» alla detenzione in carcere. Come? Utilizzando ciò che la legge già permette: detenzione domiciliare con il braccialetto elettronico, lavoro diurno esterno presso associazioni , cooperative e imprese private, accoglienza nelle Rems per i malati psichici (invece che ristretti nelle carceri… porca miseria, sono malati!), accoglienza in «comunità terapeutiche» con un progetto di recupero per i tossicodipendenti e gli alcolisti , applicazione delle norme che prevedono i domiciliari o l’affidamento ai servizi sociali per le persone sopra i 75 anni e per coloro che hanno pene da scontare inferiori a 4 anni, ricorso alla detenzione domiciliare anziché alla custodia in carcere in attesa del processo, per citarne alcune. Il Tribunale per Esecuzione Pene e il Tribunale di Sorveglianza hanno gli strumenti per disingolfare le carceri italiane, se lo vogliono. Come anche i Direttori delle carceri, con il l’ammissione al lavoro extramurario (cioè fuori dal carcere, di giorno lavori e di notte stai in carcere). Senza poi parlare dei «detenuti stranieri» (più del 30% dei reclusi) ai quali, tramite ordinanza della Corte di Appello di riferimento, potrebbero essere applicati i Trattati per espulsione e espiazione della pena nel proprio paese di origine (espulsione tra l’altro già prevista al fine pena). Quindi anche il tema del ‘’sovraffollamento’’ delle carceri potrebbe essere affrontato senza tante problematiche.

Ma affinché il «faro» dell’art.27 illumini gli operatori della giustizia, in primis, ma anche tutti i cittadini è necessario che il CARCERE sia oltre che vivibile soprattutto utile. La prima ovvietà che voglio sottolineare è che il funzionamento di una struttura carceraria ha bisogno di un direttore, di un numero di educatori (con un rapporto di un educatore ogni 20-30 detenuti – oggi il rapporto medio è di un educatore ogni 100 detenuti), di un comandante degli agenti di Polizia Penitenziaria, di un numero di assistenti sociali (con un rapporto di un assistente sociale ogni 20-30 detenuti – oggi il rapporto medio è di un assistente sociale ogni 150 detenuti), dell’accesso agli «operatori di fede». Sapete quanti CARCERI ci sono in Italia? 192. Questi 192 istituti di pena hanno tutti un direttore? No! Circa 50 istituti non hanno direttori, ci sono sostituti chiamati «reggenti» (spesso direttori di altri istituti prossimi) o «facenti funzione» (spesso graduati della Polizia Penitenziaria). Questo comporta che senza direttore non c’è progettualità dell’istituto su tempi lunghi, non ci sono stile di gestione e legami definiti con «strutture del territorio», «strutture di servizio» e «strutture di solidarietà». Il «facente funzione» è per definizione «precario» e non farà progetti di lunga durata come può essere il «lavoro intramurario» (all’interno degli istituti di pena), si limiterà alla gestione dell’esistente e spesso del minimo sicuro: il casermaggio (pulizia delle sezioni e cucina).

Più grave ancora è la questione degli educatori e degli assistenti sociali, naturali attori del rapporto tra il detenuto e il Magistrato di Sorveglianza, ai quali scrivono le relazioni per l’accesso alle «misure alternative alla detenzione in carcere», tra il detenuto e la sua famiglia per il mantenimento del «legame familiare», la preparazione all’uscita dal carcere (attività lavorativa e alloggio). Il ministero della Giustizia prevede che negli istituti di pena siano attivi soltanto 908 «funzionari giuridico pedagogici» ma attualmente nei 192 penitenziari italiani gli educatori 681 e l’ultimo «concorso» rimonta a quindici anni fa. Qualcosa di diverso per gli «assistenti sociali»? Niente affatto! L’organico previsto è di 896 unità, mentre sono solo 733 i funzionari effettivamente presenti negli istituti penitenziari italiani. Ci si chiede poi perché vi sia una recidiva vicina all’80%? Quello che non accade è perché non si vuole, non c’è interessamento che avvenga.

Insomma, il personale del carcere insieme con gli enti pubblici locali e le imprese private, con il volontariato potrebbero cercare di rendere vivibile e soprattutto utile la carcerazione, nella sua esecuzione della pena, e costruire il «passaggio» al rientro nella società. Ma non, è così! Eppure basterebbe che ad ogni struttura carceraria venisse concesso il «minimo sindacale»: un direttore, un numero adeguato di educatori e di assistenti sociali, un numero sufficiente di agenti di Polizia Penitenziaria (il ministero della Giustizia prevede che negli istituti di pena siano attivi 37.445 agenti di Polizia Penitenziaria, ma attualmente nei 192 penitenziari italiani gli agenti impiegati sono 31.680, per una «popolazione carceraria» di oltre 60mila detenuti), un importante e articolato rapporto con il territorio, la valorizzazione del volontariato in carcere e dell’impresa privata che porta lavoro in carcere.

Già «il lavoro in carcere» è, si può dire, assente malgrado che «il lavoro è ritenuto dall’Ordinamento penitenziario l’elemento fondamentale per dare concreta attuazione al dettato costituzionale che assegna alla pena una funzione rieducativa» (min. Della Giustizia, Relazione sullo svolgimento da parte dei detenuti di attività lavorative o di corsi di formazione professionale per qualifiche richieste da esigenze territoriali», anno 2019).

Sulla carta tutto funzionerebbe ma fino a quando non ci saranno nella realtà applicata queste condizioni minimali (assenti da sempre), parlare di «riabilitazione», di «rieducazione», di lotta alla recidiva è pura teoria.

Marco Affatigato

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Riguardo l'autore

Marco Affatigato

nato il 14 luglio 1956, è uno scrittore e filosofo laureato in Filosofia - Scienze Umane e Esoteriche presso l'Università Marsilio Ficino. È membro di Reporter Sans Frontières, un'organizzazione internazionale che difende la libertà di stampa.

Nel 1980 la rivista «l’Uomo Qualunque» ha pubblicato suoi interventi come articolista. Negli ultimi anni, ha collaborato regolarmente con la rivista online «Storia Verità» (www.storiaverita.org) dal 2020 al 2023.