Come alcuni di voi che mi leggete, ho passato un bel certo numero di anni “dietro le sbarre”. A volte “intimamente colpevole” di aver violato leggi dello Stato, altre volte no, solo per “persecuzione politico-giudiziaria”. Ma non voglio parlare di me, salvo dirvi che ogni volta che ho superato la “soglia” di un carcere ho, comunque, sempre rispettato gli esseri umani che vivono in quei “quartieri” delle nostre città: gli altri detenuti come gli agenti di Polizia Penitenziaria, i “civili” amministrativi come i civili” volontari”. Ho rispettato e tutt’ora porto rispetto a tutti coloro che operano in un istituto di detenzione. Un quartiere della città abbandonato al suo destino dalla “società civile”.
Nel mondo della politica ci sono coloro che vorrebbero distruggere la “istituzione carceraria” perché ha, permettetemi di utilizzare una terminologia caduta in disuso ma pur sempre identificatrice, una funzione di annientamento del «proletariato prigioniero» e di strumento di “repressione” e “tortura”, da una parte, mentre un’altra parte la vede come “strumento” di “esecuzione di una pena” ma spesso più come “vendetta”. In entrambi i casi, secondo il motivo addotto, mi arrivano come pugni allo stomaco. Questo perché il carcere l’ho vissuto, l’ho conosciuto “sulla mia carne” e ritengo che la “istituzione carceraria” non può essere vista (e accettata) e utilizzata quale strumento di vendetta, né di repressione, né tantomeno di tortura. Ma solo “esecuzione di una pena”. E, al di là di ciò che politicamente e falsamente può essere affermato e al di là dei luoghi comuni, in Italia la pena è certa ed è anche dura. Ed è altrettanto vero però che, come nella “società”, anche in carcere ci sono violenti, sia fra detenuti come fra gli agenti della Polizia Penitenziaria e, fra quest’ultimi, per fortuna da non generalizzare, in qualcuno alloggia l’arroganza, la provocazione, il sadismo da scaricare sul detenuto sentendosi “intoccabili” perché coperti dalla divisa che invece violano. Ma come ho scritto sopra, questi “agenti-criminali” sono una minoranza perché un’Agente che indossa la divisa della Polizia Penitenziaria non tortura, non insulta, non provoca; un Agente fa il suo lavoro quotidiano comandato e spera che la detenzione e le misure ad essa collegate (quando ci sono) servano a non vedere più tornare in carcere chi esce quando ha scontato la pena in condizioni al limite della tollerabilità e spesso anche oltre, secondo il carcere in cui è stato ristretto.
Chi è in carcere non è solo uno che ha sbagliato nel vivere sociale, secondo le regole date in uno Stato che sono fissate all’interno di un libro che è il Codice Penale. Quindi regole per una convivenza civile “maturate” nella sede della rappresentanza dei cittadini: il Parlamento. Chi è in carcere, quindi, non è solo un detenuto ma è, soprattutto, una persona che sta pagando quel debito con la società, quell’essere “uscito dalle regole” dateci e che sta ritrovando la propria dignità per il suo “rientro” nella società civile con lo scontare la pena che gli è stata comminata togliendogli le libertà.
Il nostro art.27della Costituzione ci dice tutto. Fatto è e verità altrettanto che l’art.27 Cost. rimane inapplicato nella sua essenza teorica ma, soprattutto, nella sua pratica. Purtroppo chi varca la soglia del carcere, come condannato, alla fine della sua condanna esce da quella soglia ma resta un “detenuto a vita”. Questo perché non troverà nessuno, spesso neanche la moglie, i figli, i parenti, gli amici che aveva, né tantomeno la “società civile” capace di accoglierlo. Non è quindi la certezza della pena che manca in Italia, ma la certezza del reinserimento nella società.
In altri Paesi che io qui’ non sto’ a citare, ma che vengono presi a esempio per “la certezza della pena” è anche viva la certezza del reinserimento sociale: una volta finita di scontare la tua pena torni ad avere tutti i diritti di cittadino. Il tuo “debito” con la società è pagato. Torni a essere un cittadino ordinario, normale, con tutti i tuoi diritti. Non in Italia. In Italia sono i reietti della società e nessuno in questa cosiddetta “società civile” politicamente e costituzionalmente lavora affinché siano affrancati dallo “ex detenuto”. Neanche i cosiddetti progressisti che considerano l’istituzione penitenziaria una funzione di annientamento del proletariato. L’unico “attore politico” istitutore di una legge che favorisse il reinserimento degli ex detenuti fu il governo Mussolini, istituendo la “patente di venditore ambulante” poi trasformata negli anni ’60 in “licenza comunale” e successivamente vietata, negli anni ’80, a chi aveva riportato condanne penali. Ecco come la giustizia diventa, invece, vendetta!
Una vendetta che non è consona alla nostra art.27 della Costituzione, non è consona a uno “Stato di diritto”, non è consona a una “democrazia” quale in Italia vorremmo che fosse. La vendetta fa apparire lo Stato non autorevole e lo pone allo stesso livello di chi ha condannato. Allo Stato spetta la giustizia, non la vendetta. Altrimenti vale tutto e perdiamo tutti. Perde l’Italia.
Articolo 27 Costituzione italiana
La responsabilità penale è personale.
L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Non è ammessa la pena di morte.
Che cosa significa?
L’art. 27 contiene i principi fondamentali dell’ordinamento penale italiano.
Il principio della personalità della responsabilità penale: ciascun individuo è responsabile solamente per le proprie azioni e, quindi, non può essere punito per un reato commesso da altre persone.
Il principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva: ciascun cittadino italiano è dichiarato non colpevole fino a quando non sia stata emessa la sentenza definitiva che accerta la sua responsabilità penale.
Il principio di umanità della pena: la Costituzione obbliga i legislatori a non approvare modalità di pena che siano lesive del rispetto della persona (ad es. pene corporali o forme di tortura).
Il principio della finalità rieducativa della pena: le pene non devono tendere solamente a punire chi si è reso colpevole di un reato, ma, se possibile, devono mirare anche alla sua rieducazione favorendone il reinserimento nella società.
L’Italia ripudia inoltre la pena di morte ed è stata promotrice di azioni internazionali finalizzate a estendere in altri Paesi tale rifiuto.
Ma perché…?
Poiché la chiusura di una persona in carcere viene intesa dalla Costituzione come l’aspetto punitivo della pena, al quale deve associarsi un aspetto rieducativo: alla base di questo principio vi è la convinzione che il reato sia un errore che nasca da una disposizione individuale correggibile. È un tema che periodicamente viene discusso in Italia perché le carceri italiane sono sempre sovraffollate e troppo poco attrezzate per consentire una rieducazione, come rilevato anche dalla Corte dei Conti.
Per contro, esistono varie esperienze di segno opposto, che spesso passano attraverso la pratica del lavoro: per esempio, in alcune carceri piemontesi viene impacchettato il caffè; sull’isola della Gorgona, vicino a Livorno, si producono prodotti enogastronomici, come anche a Rebibbia; nel carcere di Sanremo , infissi per finestre e porte; nel carcere di Bollate, alle porte di Milano, si insegna a gestire i cavalli; e in altre , purtroppo poche, carceri s’insegna una professione….che pero’ una volta ‘’fuori’’ l’ex detenuto non puo’ mettere in pratica ‘’perché a lui vietato’’ dalla fedina penale e dalla legge.
Marco Affatigato