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FASCISMO, DVCE
Cultura

Arte e fascismo al MART di Rovereto

La coraggiosa mostra del Museo roveretano del MART include delle opere celebrative dell’Italia e del Dvce, che, seppur nella loro essenzialità, perché molto altro ci sarebbe da esporre, hanno un carattere originale e personale. Dai volti e busti in statua in metallo o bronzea. Tanto ricordano il Giulio Cesare antico. La celebrazione della nazione nel suo status di allora: Agricoltura, Famiglia, Lavoro, Radio come mezzo per la diffusione dell’ideale del fascismo.

Ebbene inizia con una Radio, la radio che unisce per la prima volta, senza ombra di dubbio, tutti gli italiani. Gli italiani non erano forti in termini culturali di condivisione e la creazione di un italiano medio è passata, non sappiamo il perché, attraverso il fascismo. Era necessario? Non possiamo saperlo. La dietrologia anacronistica è stupidaggine da perditempo, noi possiamo solo sapere la verità sostanziale dei fatti.

MATERIALI IMPORTANTI

Vi sono materiali di propaganda, premesso questo, tutto il resto è da vedere. Accanto a figure dichiaratamente fasciste, convinte sostenitrici del Duce come lo furono quindi il buon Depero e il buon Sironi si muovono artisti meno ingaggiati.

Molta parte di intellettuali fascisti lo fu per scelta, che poi vi siano stati gli intellettuali fascisti per obbligo va anche esplicitato, altrimenti si scorda che il movimento dei Fasci Littori terminò con il regime semi-totalitario, maldestra imitazione del Nazismo Hitleriano.

Dunque su una larga base maggioritaria convintamente fascista, quella italiana, si trasforma, anche non troppo lentamente, su un panorama ristretto, che incentra solamente sulla figura del Dvce il suo interesse. Il progresso, il mito, i sogni, le aspettative, il futuro di tutta una nazione, che riparte dalle basi elementari, poiché dopo il primo conflitto mondiale non era rimasto niente.

Serviva fare i figli, imparare a leggere e a scrivere, lavorare i campi, iniziare a lavorare nelle prime industrie, anche fuori dall’Italia, la radio. Razionalismo, Classicismo, nostalgia imperialista delle radici italiche. Da volontà celebrativa si passa rapidamente negli anni ’30 a idolatria del condottiero feroce.

Fanno sorridere, o anche ridere, le pose dure delle opere, con il senno di poi, che tra pittura, scultura, documenti e materiali d’archivio, in un percorso espositivo si snoda tra 400 opere di artisti e architetti: Mario Sironi, Carlo Carrà, Adolfo Wildt, Arturo Martini, Marino Marini, Massimo Campigli, Achille Funi, Fortunato Depero, Tullio Crali, Thayaht, Renato Bertelli, Renato Guttuso.

Di collezioni pubbliche e private le opere dialogano con alcuni dei grandi capolavori del MART e con numerosi materiali dei fondi dell’Archivio del ’900 sul fascismo.

UNA MOSTRA ATTUALE

La mostra va vista, assolutamente, perché chiarifica in modo essenziale ma davvero esplicito ed empatico l’ascesa e la caduta del leaderismo autocratico. Essa fa comprendere, senza tante perdite di tempo, come si crea e come si schianta un mito del popolo. Un concetto attuale, riguarda molto da vicino quello che attualmente si chiama pubblicità: il marketing, in pratica le visualizzazioni e il trend.

La mostra termina con una frase a muro di Vittorio Sgarbi, che recita qualcosa come il dato di fatto che le persone muoiono e vengono dimenticate, ma le opere restano a testimoniare la storia. Una mostra che merita di essere vista, non tanto per il soggetto, abbastanza ridondante. Chiarificante e per niente celebrativa o polemica rispetto alla storia del fascismo.

Martina Cecco