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Il Natale che vorrei

Un popolo di cattolici, come quello italiano, festeggiava il Natale con fervore, fino a qualche decennio fa. Oggi è una festa consumistica. La sintesi atomistica di tale celebrazione potrebbe finire così.

Tuttavia vogliamo concederci un breve amarcord emotivo senza freni.

Piccoli, attendevamo la neve, a far da corona all’arrivo del Bambin Gesù. Mamme e nonne preparavano prelibatezze da gustare a partire dal cenone del 24, con la messa di mezzanotte per i più devoti. Nelle campagne, ma pure nelle periferie cittadine, permaneva l’aspettativa di un pranzo che costituiva l’eccezione alla regola di una frugalità abituale, dettata dalle risicate disponibilità economiche.

Da almeno venti giorni campeggiavano, nei tinelli, alberi di natale e presepi, più o meno sontuosi; dalle mie parti, era uso visitare l’allestimento al santuario del  Bambino di Praga, ad Arenzano, particolarmente fastoso e curato.

Un’ebbrezza un po’ delirante pervadeva la società, intenta ad acquistare regali, appariscenti o poco più che simbolici, da scartare la mattina del 25 dicembre, a significare una rinnovata pace familiare, dopo l’anno di inevitabili alti e bassi.

Naturalmente bambini e adolescenti godevano appieno del periodo di vacanze dalla scuola, che comprendevano i brindisi di capodanno con il suo seguito di libagioni e l’Epifania che “ tutte le feste si porta via”, ricorrenza molto sentita a Roma.

Negli ultimi decenni, molti forse non erano più arsi dal desiderio di celebrare riti e abitudini considerati consunti e svuotati di significati. La laicizzazione popolare ha portato milioni di persone a mollare, ove possibile, i lidi casalinghi per vacanze sulla neve o in luoghi esotici dove fare i bagni di mare fuori stagione, dribblando oneri e doveri di riunioni familiari sentite come opprimenti.

E parimenti il crescente monadismo del vivere moderno acuisce il senso di solitudine e di alienazione, portando a un picco di gesti anticonservativi in prossimità dei giorni di festa.

Esiste poi la quota di turnisti, che non possono permettersi ponti e settimane bianche e si accingono a lavorare anche più del solito.

Cosa resta, dunque, del Natale?

Per un cattolico praticante, senza dubbio il piacere di ricordare la nascita del figlio di Dio; per gli appartenenti ad altre fedi, un solstizio di inverno pur sempre iconico ( ne racconta in un libro la scrittrice ebraico/americana Erika Jong); per i disinteressati totali, un momento di riposo, magari infastidito dalle bolge nei negozi e in strada.

Larghe porzioni di mondo non partecipano del cristianesimo, ma assistono sugli spalti a questo momento di passaggio, che coinvolge sempre meno cuore e spiritualità anche di chi ne è coinvolto per status di nascita o territorio di residenza, ed è a loro che ci rivolgiamo.

Ovunque voi siate, in qualunque cosa crediate, anche nello scientismo o nella razionalità assoluta e poco o punto nel trascendente, che pensiate a un paradiso di vergini, al Valhalla o alle prossime vite che vi attendono o che Dio debba ancora farsi vivo, dateci una mano a portare il messaggio di pace di Gesù Cristo: per molti di noi, un fratellone barboso e predicatorio, un “Brian di Nazareth” che si credeva un guru ed è finito nel mirino del potere, al centro di una fiaba metaforica che potrebbe conservare ancora un suo valore, se solo volessimo ricordarcene.

Carmen Gueye