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Editoriali

Ilaria Alpi – Miran Hrovatin: la storia infinita, prima parte

Ilaria Alpi, classe 1961, era nata con ogni benedizione. Unica figlia di una agiata coppia che viveva a Roma, un nobile viso dall’ovale botticelliano circondato da una cascata di capelli biondo cenere, si era laureata in lingue orientali a Roma, con specializzazione in arabo. Dopo i primi incarichi a L’Unità e Paese Sera, come inviata in Egitto, la ragazza aveva vinto una borsa di studio, viatico per l’assunzione in RAI.

Curiosa circostanza, raccontata dal papà: un nonno di Ilaria, noto per i duelli e le battaglie contro la schiavitù, era morto in Somalia nel 1897 (da premio Ilaria Alpi – 2011).

La sua passione per le vicende dei paesi del “terzo mondo” la condusse prima in Medio Oriente, poi in Somalia, inizialmente per seguire le operazioni Restor Hope e UNOSOM II, con cui gli USA fornivano aiuto umanitario ai cittadini stremati, pur senza contribuire alla pacificazione nella feroce guerra civile che lì imperversava, anzi esercitando il consueto controllo.

Nelle operazioni si era inserita anche l’Italia, inizialmente vista con sospetto per i rapporti privilegiati con l’ex dittatore Siad Barre.

Barre (già allievo della a Scuola allievi sottoufficiali Carabinieri di Firenze),  inizialmente ritenuto un illuminato marxista, intratteneva buone relazioni commerciali e militari con il nostro paese, di cui era stato colonia fino al 1960 ( molti parlano fluentemente l’italiano ancora oggi) e Bettino Craxi ne era stato il più benevolo interlocutore.

Il tiranno, accusato di essere autore di stragi e carneficine contro gli oppositori e i rivali, fu poi deposto, nel 1991, con l’aiuto etiopico, dal generale suo ex braccio destro, Aidid (addestrato in una scuola di fanteria a Roma, suo cugino sarà presidente somalo di transizione dal 2000 al 2004); tuttavia quest’ultimo si ritrasse nella zona nord, perché in quella meridionale si era insediato un altro “warlord”, Ali Mahdi, considerato presidente ufficiale del paese dal 1991 al 1996.  I due territori erano separati dalla cosiddetta “linea verde”. Le lotte tribali stavano diventando incontrollabili e due conferenze per la pacificazione fallirono.

Nel luglio 1993, vicino al cosiddetto checkpoint Pasta, un posto di blocco allestito nei pressi di un pastificio Barilla abbandonato e da cui la battaglia prende il nome, furono uccisi tre soldati italiani; ciò indusse il governo di Roma a criticare apertamente la politica di confronto con Aidid perseguita dagli Stati Uniti e a farsi sostenitore di un’iniziativa di dialogo rivolta a tutte le forze somale, ivi compresi i sostenitori di Aidid. Una svolta della politica degli Stati Uniti nel senso auspicato dall’Italia si registrò in effetti nell’ottobre successivo, allorché il presidente Clinton annunciò che entro il marzo 1994 tutte le forze statunitensi si sarebbero ritirate dalla Somalia. L’ONU lascerà la Somalia nel marzo 1995. Il 24 luglio 1996 Aidid e i suoi uomini si scontreranno con le milizie di Ali Mahdi e dell’ex alleato Osman Ali Atto, ex sostenitore e finanziatore di Aidid e dello stesso clan. Aidid subì una ferita da arma da fuoco nel corso della battaglia. Morirà per arresto cardiaco il 1º agosto, durante o dopo l’intervento chirurgico per curare le sue ferite.

Una volta sul posto, Ilaria si era appassionata al contesto. il cameraman che di solito la affiancava, Alberto Calvi, ricorderà la tenacia della donna nel cercare di conoscere a fondo quella società, soprattutto la condizione femminile, anche se non abbiamo mai visto servizi specifici in merito. Una attivista locale le spiegherà che non si deve giudicare con le lenti occidentali. Calvi insiste da sempre sul fatto che loro realizzavano servizi profondi e alternativi, a differenza degli altri colleghi, che si limitavano a riferire il contenuto dei report militari.

Torniamo al 1994. Ilaria si reca per la settima volta in quella tormentata nazione, la prima con il cineoperatore Miran Hrovatin, proveniente dalla RAI di Trieste. Hrovatin, sposato con un figlio, aveva operato soprattutto in Bosnia e si diceva desideroso di lavorare in luoghi più caldi. La sorte fece sì che Alberto Calvi fosse reduce da un infortunio in montagna; ma soprattutto (parole sue) era in vertenza con la RAI, perché il budget per quell’ennesima trasferta non avrebbe garantito sufficienti margini di sicurezza, con riguardo al numero di guardie del corpo necessarie per gli spostamenti. Questo problema non fermò Ilaria e Miran.

Le cronache sono state ripercorse infinite volte e l’indagine in teoria è ancora aperta. Benché non se ne veda la fine, è convinzione di molti che la Alpi avesse scoperto traffici illegali.

Ma è andata proprio così?

20 marzo 1994. Sono passate da poco le 14.30. Una Toyota attraversa la capitale somala, diretta verso l’Hotel Amana. Ilaria e Miran sono appena tornati dal Nord del Paese, dove hanno incontrato il sultano di Bosaso. Il percorso comportava il pericoloso attraversamento della linea verde. Il colloquio col sultano riguardava questioni nevralgiche per l’inchiesta, ovvero la discussa compagnia di navigazione SHIFCO e i suoi collegamenti con alcune organizzazioni italiane, ma il pericolo era alto. Miran evidentemente non si era opposto.

A Bosaso, poche settimane prima del loro arrivo, era stata sequestrata una nave, la Faarax Omar, parte di una flotta di cinque pescherecci e una nave  più grande: imbarcazioni costruite in Italia e donate dalla cooperazione italiana alla Somalia quando era ancora al potere Siad Barre. La flotta era gestita dall’imprenditore italo-somalo Omar Mugne. Uomo di Barre, laureato in ingegneria a Bologna, Mugne divenne amministratore della flotta, una volta entratone in possesso con un abile passaggio di mano tramite la SHIFCO, una società fondata in Italia, che permise  la privatizzazione della flotta.

Nell’intervista, tra le altre cose, il sultano Abdullahi Mussa Bogor, autore del sequestro,  aveva risposto, su domanda ” Mugne era a capo della SHIFCO. Parte di questa proprietà apparteneva ad una società italiana in collusione con lui. E’ la società che manovra, Mugne non è niente”. Abdullahi non volle rivelarne il nome. “Non posso, queste società hanno dei lacchè ovunque”.

L’hotel di Mogadiscio non era quello solito, dove scendevano sempre i giornalisti. Tutti i reporter avevano abbandonato la città e quelli italiani si trovavano al sicuro sulla nave Garibaldi, della nostra Marina Militare. Si dice che Ilaria avesse già annunciato alla madre il prossimo imbarco per il ritorno, quando una telefonata l’avrebbe convinta per la puntata a Bosaso.

La cronaca narra che sulla via del ritorno, a poca distanza dall’albergo, da una Land Rover scesero diverse persone armate, almeno sette, facendo fuoco. Un proiettile di kalashnikov avrebbe colpito alla tempia Ilaria Alpi, una raffica raggiunse Hrovatin.

La procura di Roma avvia un’inchiesta e viene disposto un esame medico-legale esterno sul corpo della Alpi. Il referto parla di un colpo a bruciapelo alla nuca della giornalista. Il fascicolo viene affidato a Giuseppe Pititto, sostituto procuratore. È lui a verificare che sul cadavere di Ilaria Alpi non è stata eseguita un’autopsia, ma soltanto un esame esterno ( a Trieste invece l’autopsia su Hrovatin era stata eseguita subito). Il medico militare di bordo ha affermato di aver posto ogni cura nel primo esame dei corpi, di cui curò anche la pulizia prima della sistemazione nelle bare, e che la causa di morte era palese. Aggiunse che i due si presentavano come freschi di doccia e di cambio biancheria.

Il 4 luglio 1994 il padre di Ilaria ricorda che la figlia aveva annotato l’ultima intervista su un taccuino poi scomparso. Il sultano di Bosaso, Abdullahi Mussa Bogar, viene iscritto nel registro degli indagati il 9 aprile 1996 come mandante del delitto, ma la sua posizione sarà archiviata. Oggi si accusano ignoti di averne fatto sparire una parte dell’intervista.

Il 4 maggio 1996, la salma di Ilaria Alpi è riesumata su ordine del pm Pititto per chiarire la dinamica dei fatti; il 25 giugno dello stesso anno la perizia balistica decreta che il colpo contro Ilaria Alpi fu sparato a distanza, probabilmente con un kalashnikov. Le perizie negli anni si susseguiranno e andranno spesso in contrasto. I signori Alpi propendono per un commando organizzato e scriveranno il libro “L’esecuzione”.

Il 12 gennaio del 1998, il cittadino somalo Hashi Omar Hassan si trova a Roma per testimoniare alla commissione, sulle presunte violenze dei soldati italiani in Somalia; a sorpresa viene arrestato per concorso in duplice omicidio volontario e accusato come componente dello squadrone assassino, dall’autista di Ilaria, arrivato anch’egli come teste. Nel luglio del 1999 Hassan viene assolto.

Il 24 novembre 2000, poco più di un anno dopo l’assoluzione, la corte d’Assise d’Appello ribalta la sentenza di primo grado e condanna Hassan all’ergastolo. Hassan viene ritenuto colpevole, ma i genitori di Ilaria Alpi non concordano con la sentenza.

L’anno successivo, nell’ottobre del 2001, la Cassazione annulla la sentenza d’appello limitatamente all’aggravante della premeditazione e alla mancata concessione delle attenuanti generiche, ma conferma la condanna per omicidio volontario e rinvia il procedimento per nuovo esame ad altra sezione della corte d’assise d’appello.

Il 26 giugno 2002, la corte di Assise d’Appello di Roma riduce a 26 anni la pena per Hashi Omar Hassan: il quale, grato per la solidarietà dei genitori della vittima, chiamerà la madre “mamma Luciana”, segnalando che la signora Alpi lo aveva aiutato anche a ottenere i benefici di legge. L’autista “accusatore” verrà trovato morto pochi giorni dopo il suo ritorno in Somalia, ufficialmente per overdose.

Il 31 luglio 2003 nasce la Commissione parlamentare d’inchiesta Alpi-Hrovatin. Il presidente è l’avvocato Carlo Taormina. La Commissione dura tre anni, fino al 2006, quando, senza una soluzione unanime, il presidente Taormina si fa portavoce della tesi del rapimento fallito e porta avanti un punto di vista che indigna i genitori e i colleghi della vittima. “Ilaria Alpi era lì in vacanza, e le voci di un’esecuzione sono state messe in giro ad arte”, sostiene il presidente, affermando di essere in possesso di documenti segreti che proverebbero le sue parole. Ufficialmente la Commissione si schiera per l’ipotesi di un tentativo di rapina o di rapimento “conclusosi accidentalmente con la morte delle vittime”.

Un ruolo imperscrutabile nell’intera faccenda è rivestito dall’imprenditore vercellese Gianfranco Marocchino. L’uomo, parolaio e vulcanico, si occupa di trasporti di merce varia e abita in una delle ville più lussuose della capitale, con molti bodyguard; è presente al momento dell’agguato, aiuta nel trasporto dei corpi e inveisce per l’assenza di autorità italiane civili e militari a soccorrere i connazionali, insinuando che forse Ilaria, ancora viva, potesse essere salvata: circostanza improbabile, vista la ferita alla testa con fuoriuscita di materia cerebrale.

Gli danno una mano, in queste accuse, alcuni giornalisti che avevano sgomberato le camere delle vittime. Le valigie e i borsoni furono sigillati sulla nave. Da allora fioccano le accuse di manomissione e asportazione di nastri e taccuini, ma un inviato italiano, in aula, dovrà poi ammettere che lui stesso aveva rotto un sigillo.

Negli anni il Marocchino cambierà versione, sostenendo che l’intenzione era quella di rapire la sola Ilaria e facendo insinuazioni per le quali verrà querelato. Nel circo ci sarà posto anche per sottili accuse al rappresentante della Farnesina e ad altri militari, sia da parte di Marocchino che di alcuni somali.

Un anno dopo la chiusura della Commissione, la procura di Roma – il 10 luglio 2007 – chiede l’archiviazione per l’inchiesta sull’omicidio. Il procuratore sostiene che, oltre a quella di Hassan, è impossibile accertare con precisione altre responsabilità. Si tratta di un’ulteriore inchiesta aperta poco dopo la condanna di Hassan e per cui si era ipotizzato il “concorso con ignoti”.

Il 14 febbraio 2010 il gip boccia la richiesta di archiviazione. Nello stesso anno si spegne Giorgio Alpi.

Carmen Gueye

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Riguardo l'autore

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Carmen Gueye genovese laureata in lettere antiche, già pubblicista e attiva nel sociale, è autrice di romanzi, saggi e testi giuridici