Shopping, speaker, hotel, smartphone sono parole che vengono pronunciate da qualsiasi italiano. Il nostro Paese è coinvolto in un lento assorbimento di termini anglosassoni, sebbene questa tendenza, nei fatti, non riguardi ogni Nazione del continente europeo.
Un caso particolare è quello che riguarda la Francia, dove nel gennaio del 2013 la Commissione Generale di Terminologia e Neologia aveva vietato l’uso della parola “hashtag”, sostituita con l’espressione Mot-dièse. La Francia, del resto, vanta una lunga tradizione di ostilità nei confronti di neologismi ed espressioni di matrice straniera. Basti pensare al 2003, quanto fu stabilito il divieto dell’uso di “mail” in favore del più patriottico courriel. Per non parlare del personal computer, il francese ordinateur, che in Italia, nei panni del “calcolatore”, ricorderebbe più una grossa scatola piena di valvole che uno strumento di tecnologia digitale.
Se la Francia tutela il patrimonio linguistico e della cultura locale, in Italia invece la tendenza è quella di prendere sempre più termini anglosassoni e inserirli nel vocabolario. Dal 2000 oggi il numero di parole inglesi affluito nella lingua scritta italiana è aumentato del 773%: nel dizionario Treccani vengono menzionati oltre 9000 anglicismi su 800.000 lemmi ed accezioni.
In molti affermano che è necessario adeguarsi ai nuovi tempi, ma è innegabile il danno che sta subendo la lingua italiana. I giapponesi la ritengono un idioma musicale seppur complesso, con accenti e coniugazione verbale non proprio semplice. I sudditi dell’Imperatore, che non masticano bene il tanto indispensabile inglese, non parlano altre lingue oltre alla propria se non in caso di necessità.
Vi sono comunque molte persone che hanno manifestato contro la costante invasione di terminologie anglosassoni nella lingua italiana. In questi ultimi giorni è partita la petizione #dilloinitaliano, iniziativa che invita il Governo italiano, le amministrazioni pubbliche, i media e le imprese a parlare con maggior frequenza la lingua nazionale. Maria Testa, promotrice dell’iniziativa su change.org, ha motivato l’iniziativa affermando che “La lingua italiana è la quarta più studiata al mondo. Oggi le parole italiane portano con sé dappertutto la cucina, la musica il design, la cultura e lo spirito del nostro paese. Invitano ad apprezzarlo, a conoscerlo meglio, a visitarlo.”
#dilloinitaliano non vuole vietare l’uso di terminologie straniere, poiché non si può ovviare all’importanza dell’integrazione ed evoluzione linguistica di una società, ma invita tutti coloro che rivestono ruoli pubblici ad usare, come già accade in Francia, le terminologie italiane con più frequenza.
” È inutile usare per esempio la parola “Jobs act“ al posto dell’espressione “Legge di lavoro” -come sottolinea Maria Testa- così com’è inutile usare l’espressione “market share” quando si può dire “quota di mercato”.
I promotori della petizione #dilloinitaliano sperano, in conclusione, che l’Accademia della Crusca si faccia portavoce dell’istanza di fronte al governo, alle amministrazioni pubbliche e alle medie imprese. In fin dei conti, l’uso di termini italiani “è una scelta virtuosa“.
Michele Soliani
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