Ieri, al Politecnico di Milano, sono stati esaminati, sotto gli occhi del sindaco di Verona Flavio Tosi, i progetti per la copertura dell’Arena. “Per qualcuno coprire l’Arena è una bestemmia, ma sono orgoglioso di partecipare a questo progetto” ha dichiarato l’ex-leghista.
E sì, la copertura in effetti può essere una bestemmia. Non tanto per il costo, 13,5 milioni di euro, che peraltro verrà coperto dal Gruppo Calzedonia, come riferito dal patron Sandro Veronesi; piuttosto la gravità della “bestemmia” sta proprio nell’idea di coprire uno dei monumenti che ogni anno attrae centinaia di migliaia di turisti da ogni parte del mondo.
Certo, la copertura serve solamente a riparare spettatori e attori da eventuali piogge torrenziali, al fine di non lasciare con “l’amaro in bocca” gli spettatori di spettacoli interrotti (e non rimborsati) a causa di condizioni climatiche avverse. Ma comunque la scelta va condannata.
L’Arena, infatti, è oggettivamente il più suggestivo teatro all’aperto d’Italia e (probabilmente) del mondo. Appunto, all’aperto. Coprire un teatro aperto significa chiudere e rendere “vana” quell’atmosfera quasi sacrale, che deriva dalla storia delle rappresentazioni.
Una storia che parte dai greci e prosegue coi romani, una storia millenaria che una ditta – non italiana, tra l’altro, ma non è questo l’importante – vuole interrompere, in nome dell’efficienza. Centinaia di “spettacoli”, anche meno sacri dell’opera, vengono tuttora rinviati, sospesi o cancellati. Partite di tennis – come a Wimbledon, dove i teloni proteggono dalla pioggia pre-gara – o di calcio, ma anche concerti.
Già, concerti: come quello dei Jamiroquai del 2002. La pioggia era torrenziale, ma nonostante ciò Jay Kay e la sua band decisero di continuare a suonare, senza lasciarsi indietro nemmeno una nota. Risultato? Quello di Verona è stato l’unico concerto della nota band acid jazz ad essere diventato un album in DVD.
La copertura, dunque, sì aumenterà l’efficienza dell’Arena, ma le toglierà ogni aspetto aleatorio. Un po’ come voler giocare al Monopoli senza utilizzare i dadi ma scegliendo le caselle dove far poggiare i propri segnalini. Privo di ogni fascino.
Riccardo Ficara