Dicono che le epoche di ferro producano uomini d’acciaio: sarà, ma a me quest’epoca così ferrigna pare produrre uomini di crescenza, omuncoli (occhio all’allitterazione) tremebondi e tremolanti, trepidamente in attesa di un qualche tribuno che indichi loro l’ennesima terra promessa.
Così, mi piace immaginare cosa sarebbe accaduto se, per davvero, l’umanità avesse avuto uno scrollone che la risvegliasse da questo torpido sogno di benessere fisico e spirituale, per ritrovare le proprie verità ataviche. Che ci dicono, incontrovertibilmente, che, a parte uno sparuto manipolo di santi meravigliosi, l’uman genere è sempre stato fondamentalmente cattivo.
Oggi, questa cattiveria, compressa e ingabbiata dal più mieloso culto della caritatevole fraternità, si limita a scaturire, di tanto in tanto, da piccoli gesti: minuscole infrazioni al ferreo codice del Bene. Chessò, dare un calcio ad un botolo molesto o una bacchettata virtuale al solito cretino che ti tormenta con le sue stupidaggini. Ma questa non è vera cattiveria: non è la magnifica, scintillante crudeltà che ha improntato di sé la storia e la leggenda. E’un debole succedaneo: quasi una parodia della cattiveria vera.
Eppure, se ti ci abbandoni, tutti esclamano: uella, guarda quello lì, che cattivo! Cattivo? Per una pedata a un volpinetto obeso che ti ringhia alla gamba? Per aver messo al suo posto un deficiente che troppo ha osato? Andiamo: questa non è cattiveria, ma la minima facoltà di autodifesa di una persona normale, circondata da un universo ostile.
Io parlo della cattiveria autentica: quella che ti fa esclamare che non siamo tutti uguali, nemmeno un po’, che tra te e il giornalista infanatichito, che fa il figo e poi sbaglia gli apostrofi, c’è l’abisso che divide l’uomo dai primati. E, se per soprammercato, ti capita di incontrare vis à vis la proscimmia, la puoi pure corcare di legnate, senza fare una piega: col miglior sorriso, anzi, sulle labbra.
La sana, splendida cattiveria che ti fa difendere ferocemente ciò che è tuo: e guai a chi te lo tocca. Ladri di biciclette come grassatori di strada o topi d’appartamento: tutti, tutti devono cadere sotto i colpi dell’imperante cattiveria. Una cattiveria ingegnosa, al pari del crimine e oltre.
Ad esempio, fare come i ladri di bici, che lasciano un loro compatriota a fare il palo, fuori da una scuola o da un luogo di ritrovo, per arrivare, su segnalazione, a portarsi via il velocipede più nuovo, appena deposto dall’incauto proprietario. Porre, a nostra volta, un palo, a segnalarci quando sia scattata l’operazione ladresca, e arrivare in massa, e riempire palo e ladroni di un soverchiante numero di bastonate, tanto da lasciarli maceri e pesti sull’asfalto.
Ah, che soddisfazione essere cattivi! Solo a descrivere l’impietosa scenetta provo un godimento intenso: figuriamoci a metterla in pratica!
Intendiamoci: io parlo di una cattiveria esclusivamente difensiva. Non di fare lo sgambetto alle vecchiette o rubare le limosine ai ciechi: quelle sono crudeltà gratuite e cretine. Mi riferisco, invece, a quel genere di cattiveria che, ormai, sopravvive soltanto nello sport, che è una pallida fantasima della vita di un tempo, come il torneo o la caccia lo erano delle battaglie medievali. E l’allenatore ti urla: ti voglio più cattivo! Mica intende che devi rientrare sul terreno di gioco armato di sciabola: insomma, ci siamo capiti. Io vorrei vedere, se fossimo anche soltanto un pochino più cattivi, cosa accadrebbe a quei pirati che ci catturano i pescatori: non c’è bisogno di scomodare Lepanto per immaginare il guiderdone di quei quattro mori arroganti.
E che ne sarebbe degli spacciatori che, impuniti e apparentemente impunibili, appestano i nostri giardini e le nostre stazioni: avete presente? La polizia li arresta e loro, col sorriso sulle labbra, il giorno dopo sono ancora lì, a vendere droga ai nostri figli. Beh, fossimo cattivi, loro sparirebbero senza che si sappia dove sono finiti: certamente in un luogo da cui il ritorno sarebbe un filo più problematico, rispetto alla guardina. E, poi, si andrebbe a cercare chi li ha fatti uscire, una, dieci, cento volte: e gli si chiederebbe ragione del suo agire.
Quante cose sarebbero diverse, se, al posto dei gessetti colorati e delle candeline tornasse in auge la cattiveria. Purtroppo, però, la cattiveria è come il coraggio: se non ce l’hai mica te la puoi dare.
Così, me ne vado buono buono alla messa delle dieci. Però ci vado a piedi, non in bici: non si sa mai…
Marco Cimmino