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Attualità Cultura Un bergamasco in Rendena

Novantasei ore per chiederci se siamo un Popolo, se abbiamo un’identità

Tre feste di quelle importanti, nel giro di quattro giorni: novantasei ore che potrebbero riassumere l’identità del nostro popolo. Se fossimo un popolo. Se avessimo un’identità.

Il primo novembre è Ognissanti: noi siamo un Paese ricchissimo di santi e di santità. Santi di epoca romana, medievali, controriformisti e moderni. Probabilmente, tendiamo a scordarcene per due ragioni. La prima è che la religione non è più granchè in auge: altre fedi si sono sovrapposte a quella antica, dei nostri padri. La politica, innanzitutto, divenuta un vero e proprio rituale religioso. E, poi, più di recente, questa ridicola, maledetta contrapposizione tra pro e no-vax, che ha espressioni degne delle guerre di religione del XVI secolo.

La seconda è che la Chiesa ha perso terreno, inseguendo le mode, invece di indicare la strada. Tra l’altro, Ognissanti, almeno per le popolazioni alpine e prealpine, affonda addirittura le proprie radici nell’antichissimo capodanno celtico: la festa di Samhain. Eppure, di tutta questa tradizione, oggi rimane soltanto un barbaro rituale americanoide: dolcetto o scherzetto?

Il due di novembre è il giorno dei morti: è uso, perlomeno dalle mie parti, andare con tutta la famiglia nei vari cimiteri, a salutare i propri cari scomparsi e lasciare loro un fiore. Ma cosa resta della famiglia tradizionale? Poca roba, signori miei: una volta, si saliva in valle per andare a dire un requiem sulle tombe degli antenati. Oggi è cara grazia se si arriva al camposanto più vicino, e si prega alla spicciolata, sulle tombe più prossime a noi nel tempo: quelle per cui la memoria si impasta ancora col dolore recente. Eppure, quella terra che ha coperto e copre i nostri defunti, nel corso delle generazioni, è quanto di più espressivo del significato autentico di “Patria”: è la terra dei nostri padri.

E, di qui, veniamo alla terza ricorrenza: il quattro novembre. Giornata cara alla Patria grande: la Vaterland. Ma, insieme, strettamente legato alla memoria di quella piccola, la Heimat. Il quattro novembre non è più la festa della vittoria: e, probabilmente, è un bene. Per tante persone, quella vittoria a spese di una minoranza che ancora vive e prospera entro i confini italiani poteva sembrare una festa divisiva. Le si è cambiato il nome: festa delle forze armate e dell’unità nazionale.

Io dico che è la festa della Patria: della Patria di ognuno. Perché la morte affratella: e i nostri cimiteri, le lapidi fuori dalle nostre chiese, traboccano di morti che quel quattro novembre pare ricordarci. Che si chiamino De Luca o Innerkofler e che siano caduti sotto il Tricolore o la bandiera Giallonera.

Tre festività, insomma, che andrebbero osservate e celebrate: su cui sarebbe bene, ogni tanto, fermarsi a riflettere, per mantenere dritta la barra del timone. Viceversa, si tratta di tre giorni che passano via così, un po’ alla carlona. Certo, si va ancora al camposanto coi fiori, alla tivù propongono formidabili sconti per Halloween e, in qualche caserma semideserta, un picchetto un po’ scalcinato rende gli onori a qualche cippo ammuffito.

Ma dentro di noi, sono giorni come tutti gli altri. Giorni importanti, che, viceversa, dovrebbero essere parte della nostra identità popolare.

Se fossimo un popolo.

Se avessimo un’identità.

Marco Cimmino

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