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DomenicaCultura di Marco Vannucci: Il genio di Vincent

Nell’epistolario con il fratello Theo, Vincent, si lamentava per la cattiva pronuncia con la quale, i parigini, usavano appellarlo. Noi siamo fiamminghi, scriveva piccato al fratello, non francesi! Vincent! Non Vinsant, Vensant, o altre diavolerie di nomi impronunciabili. A malapena continuo a sopportare tutto ma arriverà il giorno, Theo, che i miei dipinti varranno ben più delle tele e dei colori che oggi sei costretto a comprare per me…

Dans le rive gauche de Paris, Vincent, vendeva le sue opere per un panino. Per uno di questi panini, una famiglia di operai residente a Rho, nel milanese, si trovò improvvisamente ricchissima quando ebbe la consapevolezza che “quel quadro del bisnonno”, tenuto in casa più per abbellire una parete o per affetto verso il congiunto, altro non era un’opera d’arte del fiammingo dai capelli rossi. Per la cronaca, il quadro di Van Gogh, fu battuto all’asta londinese Christie per 225 milioni di euro. Vincent vendeva i suoi quadri in cambio di un panino, fu il fratello Theo ad impedire la continuità dello scempio acquistando ogni tela uscita dai pennelli del genio famigliare.

Per fortuna. Infatti è grazie a Theo Van Gogh se oggi possiamo ammirarle al museo di Amsterdam. Vincent aveva altre due sorelle, due dame della borghesia olandese troppo snob per lui che, a malapena, sapeva solo scrivere il nome per di più in stampatello. Infatti, lo lasciarono solo. Solo con i suoi tormenti, le angustie, gli scatti d’ira come la coltellata rivolta all’amico Paul Gauguin, arrivato in suo soccorso al manicomio di Arlés, “colpevole” per avergli confessato: si, io sono famoso e ricco ma tu, Vincent, sei molto più bravo di me. A seguito del fatto, Van Gogh, si autopunì tagliandosi il lobo dell’orecchio destro.

Poi riprese il pennello, dipingendo quel capolavoro assoluto che è “la sedia vuota di Gauguin”. Una sedia di paglia, a dondolo, dove l’impressione è che sia stata lasciata da un solo momento e con un moccolo, al centro della sedia, avente una candela accesa tesa a significare la speranza dell’amico che torni. Immergendomi nei suoi capolavori mi viene difficile non innamorarmi della notte stellata, dove Van Gogh “inventa” la proiezione inversa, nei girasoli gialli come il suo sgomento, nel rosso del “Caffè di notte” dove, Vincent, mangiò per 2 mesi solo bacche rosse per raggiungere il punto di rosso desiderato. Follia o non, ci riuscì.

Ma cos’è la follia se non l’aspetto più sublime dell’arte? Vincent Van Gogh era un folle, ma pure Ligabue lo fu e l’uomo della luce, Caravaggio, non fu da meno. Pensando ad Antonio Ligabue non posso esimermi dal ricordare chi, in una serie televisiva, lo interpretò magistralmente: Flavio Bucci. Con Flavio ero amico, amico vero, ogni nostro incontro era, per il sottoscritto, un insegnamento magistrale. Per Vincent ebbi una specie di sindrome di Stendhal quando ammirai “i mangiatori di patate”, un immenso spaccato di un nucleo meno abbiente ma dove trasuda tutta la nobiltà del loro essere famiglia.

Davanti a “Le Terrasse du Café la nuit”, ogni volta mi perdo e vorrei sedermi su uno di quelle sedie vuote per immergermi nei colori scintillanti espressi nella tela da colui che ebbe ad osare tutti i colori altrimenti impossibili. Il giallo, il rosso, il bleu acceso. Fu un vero genio, Vincent, la sua genialità la ritroviamo nel “Caffè di notte ad Arles“, in olio su tela dipinto nel 1888. E’ questo uno dei quadri più riprodotto dai falsari. Alcuni in bello stile ma quasi tutti, se non tutti, facilmente riconoscibili rispetto all’originale soprattutto osservando i dettagli. L’orario, per esempio, mettendola sul ridere i falsi spaziano dalle ore 23 fino alle 4 del mattino. Lo stesso fiammingo dai capelli rosso fuoco, Vincent Van Gogh, ne dipinse almeno 3 leggermente diversi tra loro.

Questo con la figura maschile, in primo piano, a rappresenta il migliore. Nel quadro si evince tutta la solitudine e la malinconia di Vincent. L’uomo con le mani chiuse a pugno sul volto, nella disperata ricerca di affogare nel vino i ricordi della giovinezza perduta, è il manifesto dell’opera artistica. Di seguito l’altra figura, solitaria, intenta a dormire sopra il tavolo. Nel fondo possiamo notare un avventore in compagnia di una prostituta, alla ricerca di un po’ d’amore (al tempo, soprattutto in orario notturno, non era abitudine una signora al bar). Infine il biliardo con una stecca sola, nemmeno un amico per giocare. E la stecca posata sul panno, ad indicare la partita finita. Come la vita. Due anni dopo, Vincent, si suicidò.

Omaggio a Vincent

Nell’universo della mente l’ultima fiammella vola, pifferai magici e gnomi festanti attendono il passaggio come un tripudio alla follia del genio che torna, orsù andiamo, è giunta l’ora di un’altra tela, dove recitare al meglio la tinta dei guai…

Volontà vostra, tuonò Vincent, e le sedie vuote portarono Gaugain in un sole di Tahiti mentre Arles fu un punto di luce per il pennello di Van Googh. Disperati colori imbrattati di giallo, rosso come il fuoco dei capelli, scontento del sole impazzisti il colore. In un vaso di girasoli fermasti il tuo nome, nelle mani la dignità dei lavoratori e in una patata dipingesti la fame. Un misto di giallo e rosa nella mente che vola di un mandorlo in fiore, fosti bello quel giorno Vincent mentre Anna di te si disperava e non riusciva, da madre, a capire. Se nelle tele d’Anversa gettasti il tuo amore fu alla favola di Theo che regalasti un pesco in boccio, ma dietro ai covoni la vita fu amara, tra una falce e la Pietà nascondesti il dolore. Nel prato dei campi in fiore, al petto mirasti al cuore, non era un girasole. Dicesti: adesso, vorrei tornare! Negli occhi la semina al tramonto ma il mondo s’innamorò e non ti lasciò mai andare, Vincent Van Googh.

Marco Vannucci