Lascia ch’io pianga
mia cruda sorte,
e che sospiri
la libertà.
Il duolo infranga
queste ritorte,
de’ miei martiri
sol per pietà
Con questo canto, Amirena, si rivolge al suo carceriere Argante. L’aria è tratta dal Rinaldo, l’opera musicale di Georg Friedrich Händel un tedesco naturalizzato inglese. Parole struggenti uscite dalla fantasia del librettista italiano Giacomo Rossi. Il librettista, per chi non mastica di lirica, è il paroliere delle opere liriche. Librettisti-parolieri-poeti capaci di dare un senso verbale alla musica; tra loro, a mio modesto avviso, spicca Giuseppe Giacosa, il paroliere di Puccini, a lui si deve “e lucean le stelle” dove commuove col “non ho mai amato tanto la vita”…
Carlo Maria Michelangelo Nicola Broschi amava la vita. L’amava sì tanto da cantarla con la sua voce da usignolo, incantando chiunque abbia avuto la fortuna di ascoltare pure una sola nota. Carlo Maria s’arrampicava sulla scala musicale come un alpinista nelle cime del Monte Bianco. Per lui il temuto “Do di petto” diventava una nota dolce, mai acuta, capace di passare dal Do di petto al Re maggiore con una vocalità ineguagliabile. Era un fenomeno. Nativo di Andria, la splendida città pugliese ricca di architettura barocca, il cui nome leggenda narra derivi dall’eroe acheo Diomede contradetta dalla più veritiera versione storica nella quale si deduce l’origine del nome grazie ad una intuizione del duca Francesco II° Del Balzo per conferire, alla cittadina, un nome nobile di borgata. Comunque sia Andria, Adrì o Andreia quest’ultima dopo l’evangelizzazione degli Apostoli Pietro ed Andrea, Andria rimane quella perla barocca incastonata sul pendio inferiore delle Murge da visitare assolutamente.
Carlo Maria possedeva la musica nel DNA trasmessa dal padre, il nobiluomo Salvatore, il quale lo indirizzò allo studio del canto fin da giovanissimo. Aveva un fratello, Riccardo, apprezzato ma non eccelso direttore d’orchestra. Siamo nei primi anni del 1700. La voce di Carlo Maria era di una soavità unica espressa, a pieni polmoni, durante le Messe all’interno della cattedrale di Andria. Si potesse immaginare il canto di un angelo nessun dubbio: avrebbe la voce di Carlo Maria Michelangelo Broschi. Una voce dai toni femminei dovuta ai suoi pochi anni, un tono che doveva assolutamente rimanere uguale pure con la maturità. Così fu il pensiero diabolico del fratello Riccardo, questa voce non s’ha da cambiare! Approfittando della prematura morte del padre, Riccardo, ordinò di castrare il fratello Carlo Maria. La castrazione, all’insaputa del minore Carlo Maria, avvenne mentre il ragazzo stava lavandosi all’interno della vasca da bagno. Il colore del sangue, uscito copioso al punto di colorare l’acqua della vasca in purpurea, accompagnerà Carlo Maria per tutta la vita come un incubo ricorrente.
La storia racconta come tutti i sopranisti del tempo subivano la castrazione per la stupida credenza di ottenere una voce, definita da sopranista, mantenuta nel tempo. Aveva 14 anni quando, Carlo Maria, perse la sua dignità di uomo, ma non smise mai di esserlo nei suoi sogni, nella mente, nei suoi disperati amori mai consumati. Divenne una celebrità nei teatri di tutta Europa ammaliando, con la sua voce, re e regine, nobili e plebei. Da vero artista provava l’ansia del risultato osservando la “piccionaia”, ovvero la parte alta del teatro meno nobile ma riservata ai fini intenditori ed ai veri appassionati, dal loro applauso capiva l’esito del suo canto. E applausi furono ovunque, scroscianti, sinceri.
Debuttò ancora quindicenne al Teatro San Carlo di Napoli nel 1720, in una serata di gala in onore della principessa Elisabetta Cristina di Brunswick-Wolfenbüttel, consorte dell’imperatore austriaco Carlo VI, sbalordendo i convenuti. Fu un successo strepitoso. Un giornale dell’epoca scrisse come il giovane Carlo Maria intonò un lirismo mai ascoltato prima e difficilmente eguagliabile in futuro. Carlo Maria Michelangelo Nicola Broschi… Un nome troppo lungo per i cartelloni teatrali e poco fonico per impararlo a memoria. Da lì a poco, Carlo Maria, fu per tutti Farinelli.
Esistono varie ipotesi sull’origine del nome d’arte, alcune di esse fin troppo fantasiose, la più accreditata come un atto di ricompensa verso il benefattore partenopeo Farina, un avvocato amante del bel canto grazie al quale, il giovane Carlo Maria, sostenne la retta per la scuola napoletana di musica. Non esistono dati certi, ma pare che La “buona ed agiata” famiglia Broschi di Andria subì l’onta del fallimento dovuto ai debiti accumulati ed alla dilapidazione del patrimonio a causa del primogenito Riccardo. Da Napoli a Roma, da Roma a Milano, a Parigi, Londra, Vienna, i migliori teatri europei si contendevano il fenomeno Farinelli con ingaggi da capogiro ed ovunque ottenendo la famosa “tanta merda”. Di lui si racconta le sfide musicali come quella tenuta con un celebre trombettista tedesco, a Roma, nel 1722. La sfida comportava chi, dei due, tenesse una nota musicale altissima più a lungo. Inutile dire vinse Farinelli, oggi diremmo non ci fu partita.
Fu ricchissimo e filantropo, nel sorriso nascondeva l’amarezza nel cuore per la dignità perduta in quella vasca da bagno. Verso la fine della carriera si esibì nuovamente al San Carlo di Napoli con una serie di arie scelte da egli stesso. Quella sera non volse lo sguardo verso la piccionaia, ma lo puntò dritto contro un palco dove sedeva il fratello Riccardo convenuto per seguire l’esibizione. Carlo Maria intonò “Lascia ch’io pianga”, mentre lacrime copiose sgorgavano rabbiose dai suoi occhi dalle ciglia truccate, lascia ch’io pianga, cantò guardando il fratello, volevo soltanto essere un uomo.
Carlo Maria Michelangelo Nicola Broschi rese l’anima a Dio nella sua casa di Bologna il 15 luglio del 1782, all’età di 77 anni. L’antica profezia s’è avverata: come il mondo non aveva mai ascoltato una voce soave come quella di Farinelli e non l’ha riascoltata mai più.
Marco Vannucci
• La piccionaia, così definita la zona più alta del teatro, in termini di costo biglietto è la più popolare. Le persone meno abbienti, ma grandi amanti della musica e del bel canto, fino al recente passato spesso si privavano di un qualcosa pur di permettersi un biglietto di piccionaia. Contemporaneamente le persone appellate come “nobili di orecchie”, seppure agiate, al gong del tetaro sono solite salire in piccionaia poiché la musica, com’è noto, tende a salire ottenendo così il migliore ascolto. Per questo gli artisti, alla chiusura del tendone, rivolgono lo sguardo in piccionaia poiché il giudizio della piccionaia è una sentenza determinante.
• Tanta merda è l’espressione usata per augurare il teatro pieno. L’origine del detto si deve al celebre Gioacchino Rossini al suo arrivo alla prima del “Il barbiere di Siviglia” al Teatro La Scala di Milano. Apprestandosi nel scendere dalla carrozza, il fiaccheraio avvertì il Maestro di fare attenzione agli escrementi lasciati dai cavalli. Bene! Rispose Rossini, significa abbiamo fatto il pieno!
M.V.