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Edoardo Agnelli, il figlio sbagliato, il figlio amato. -terza parte-

Veniamo all’auto. Dai resoconti, essa era posteggiata a filo della barriera, aveva ancora il lampeggiante destro acceso e il cofano appoggiato ma non chiuso, un finestrino aperto a metà. Dentro, il bastone da passeggio, due telefonini, fogli e altri oggetti.

Parlano i sostenitori dell’omicidio: Edoardo non amava parcheggiare, odiava la retromarcia e, se costretto, metteva la vettura come capitava. Sia pure, ma quello non era un posteggio poi così difficile, era un accosto.

Nei giorni precedenti il telepass aveva registrato alcuni passaggi in entrata e in uscita dall’autostrada, alle 8.59, 9.13, 9.23, ma, secondo gli scettici, il dispositivo si può spostare da una macchina all’altra. Si tratta di una manovra indimostrabile, ma compatibile con varie situazioni non necessariamente sospette. Edoardo può aver fatto un favore a un amico, che non ne ha comprensibilmente parlato; potrebbe anche aver fatto visita a qualcuno; cercato qualche contatto “proibito”; o semplicemente aver svolto sopralluoghi per cercare un punto adatto al suo triste progetto; o ancora, aver girato a caso: il tempo, non gli mancava. Quella stessa mattina della morte, l’auto entra ed esce dal casello di Marene.

Fa pensare un poco anche la dichiarazione del responsabile del controllo autostradale, che notò l’auto di Edoardo ferma sul viadotto. Per iniziare, i rapporti circa la sua testimonianza non concordano sulla posizione delle portiere: chi riporta che erano chiuse, chi dice leggermente aperte; e nemmeno si concorda sul motore, se trovato acceso o spento. Questo supervisore dichiarò, vista l’assenza di occupanti, di aver pensato che, causa un guasto alla vettura, il conducente si fosse allontanato verso la prima area di servizio disponibile per cercare aiuto o chiamare un meccanico, prima di affacciarsi dalla barriera e vedere il cadavere. E la patente di Edoardo? E’ stato sempre detto che stava nel portafoglio addosso al deceduto; ma anni dopo alcuni vorranno riferire che il documento era sul cruscotto, aperto, in bella vista.

E ora scendiamo sul greto del torrente Stura, in quella brumosa mattinata novembrina. Il corpo era in linea, come s’è detto. C‘era una gora di sangue sotto la salma, che presentava sostanzialmente ferite laterali. Gli scettici mettono in dubbio praticamente tutto, a partire dalle condizioni del cadavere, ma non si arriva a certezze né da un versante né dall’altro. Ciascuno cade a modo suo, come sa chi ha anche solo veduto foto di corpi dopo le precipitazioni, e le conseguenze esterne spesso sono molto diverse.

Sotto gli abiti era ancora indossato il pigiama ma, per l’ennesima volta, non si tratta di un dettaglio dirimente. Un suicida evidentemente può non aver a cuore il look.

Fin qui in estrema sintesi un quadro della vicenda come ancora viene ricordata, ma, nel merito, chi avrebbe ragione?

Se si pensa a un omicidio, occorre ipotizzare una mostruosa macchinazione, con mandanti spietati ed esecutori professionisti; a qualcuno che avrebbe prelevato Edoardo dopo aver fatto spegnere eventuali telecamere di sicurezza e reso la vittima inoffensiva; lo avrebbe precipitato o sul posto, o altrove per poi depositarlo dove fu trovato; e avrebbe cancellato le impronte digitali dalla Croma, dentro e fuori – poiché si dice sempre che non ne furono trovate: ma è davvero possibile?

Certo, se si ritiene che queste cose possano accadere, come nei migliori film che trattano di intrighi, complotti e misteri internazionali. Sì, perché solo al cinema questo avviene senza che alcuno si avveda di nulla, in questo caso né automobilisti di passaggio, né domestici di villa Bona, abitazione del defunto (supposti complici o ridotti al silenzio), né casellanti (intimoriti a loro volta) e nemmeno il citato allevatore che vede il corpo a terra, ma nulla ci dice su quanto avrebbe potuto notare prima. E perché architettare un’azione così complessa, quando certi immaginati poteri conoscerebbero infiniti mezzi per estinguere una vita, come un avvelenamento, un soffocamento, qualcosa che a posteriori, in questo caso, avrebbe potuto essere comodamente giustificato e archiviato come infortunio di una personalità debole? Era davvero il caso di sguinzagliare “uomini in nero” con automobili che vanno e vengono, salgono e scendono, con il rischio non basso di scatenare avvistamenti e ritrovarsi con altri testimoni da tacitare? Saremmo in presenza di una Spectre.

Il movente, secondo i propugnatori dell’omicidio, era forte e chiaro. Edoardo aveva incassato bene la nomina in CDA del cugino Giovanni Alberto, che comunque stimava e forse si sarebbe ricordato di lui in un secondo tempo; ma, dopo la prematura morte di Giovannino nel 1997, aveva reagito con pubblico disappunto al subentro di John “Yaki” Elkann, primogenito ventiduenne della sorella Margherita, infrangendo per l’ennesima volta l’aplomb distintivo del cerchio magico. Più fastidioso che mai per gli equilibri familiari e gli interessi societari, con un padre ormai in precarie condizioni di salute, già più volte operato e redattore di un laconico testamento che lo confermava coerede degli immobili in suolo italiano; deciso a non farsi liquidare in cambio della rinuncia a ruoli di management, ma a farsi sentire anche grazie a un notevole giro di contatti internazionali; e pure condiscendente verso alcune culture forse sgradite al contesto di provenienza, ebbene, egli era ormai divenuto un’ingombrante e ingestibile pietra nel giardino degli Agnelli, già allora sempre più Agnelli- Elkann. Debole nella posizione e nelle finanze (nel senso che non aveva in mano realmente la gestione di nulla), al maturo giovanotto restava solo la denuncia ai media, che comunque per qualcuno poteva rappresentare una mina vagante in mano a un uomo ancora giovane e che, fosse sopravvissuto al padre, poteva provocare grane a non finire.

A chi non crede alla versione ufficiale, appare strana la modalità dell’autoeliminazione. Un simile atto sarebbe, di norma, frutto di un impulso. Esso può verificarsi, sì, al culmine di un percorso di depressione ma, in questo caso, la lunga programmazione fa pensare. Un proposito suicida tenuto fermo nella mente per giorni e giorni e, in quello fatale, per ore prima del gesto, non è cosa da poco: ma accade.

Se invece si crede al suicidio, va meglio? Pari e patta, si direbbe. Con una pistola sarebbe stato forse più facile; supponiamo che Edoardo potesse disporne e anche in tal modo le coperture sarebbero tranquillamente scattate: che bisogno c’era di andarsi a buttare da una bretella autostradale, con il pericolo di causare incidenti e allarmi, fallire l’intento e provocare pateracchi mediatici che lo avrebbero esposto alla pubblica gogna come già in passato? Sarebbe stato così poco avveduto, Edoardo? O forse cercava il gesto clamoroso, che generasse il maggior scorno per i parenti anaffettivi?

Il fraterno amico conte Gelasio Gaetani D’Aragona Lovatelli ricorda che, insieme, qualche volta si erano dilettati nel paracadutismo: nell’ultimo lancio senza rete Edoardo avrebbe trovato la risonanza del suo antico sogno di volare, per l’ultima volta.

Alcuni analisti particolarmente maliziosi parlano di un malore fatale, o forse anche una precipitazione, ma non dal viadotto; dopo il quale l’entourage, preso dal panico, avrebbe sistemato il corpo in quell’umida riva e trasportato l’auto vicino alla barriera.

Ripercorriamo brevemente l’ultimo periodo, a partire dal 1998. Su Il Manifesto, dopo l’elezione di John Elkann nel consiglio di amministrazione della Fiat, Edoardo Agnelli biasimava la decisione per l’età di John e la nomina avvenuta pochi giorni dopo la morte di Giovannino, sostenendo che anche papà Gianni era rimasto perplesso – ma l’Avvocato smentì subito. Edoardo fu dunque nuovamente “obliterato”, rinnegato nelle sue opinioni.

“Eddy” sembrava in effetti voler dare battaglia verso la metà degli anni novanta, ma a fine millennio qualcosa doveva essere andato per il verso sbagliato. Dopo la morte del caro cugino Giovanni, unico forse a mostrargli rispetto, aveva compreso di essere solo, almeno nella dynasty. Anche il sistema solidaristico con cui ogni tanto collaborava non era più quello che aveva pensato: tutto andava in un calderone globale che gli sembrava anche peggiore del capitalismo disumanizzato, contro cui aveva spesso tuonato.

Ricordiamo che aveva disdetto, o meglio rimandato una seduta dal dentista prevista per quella mattina, preferendo uscirsene: forse mettendo in allarme qualcuno che lo aveva visto turbato, ma non fece in tempo a salvarlo.

Immaginiamo. Edoardo è obiettivamente in difficoltà esistenziali e non troverà mai una dimensione accettabile nel SUO mondo, che quello è, e nemmeno lui può cambiare, benché abbia la possibilità di spostarsi per il globo dalla mattina alla sera, in cerca di vibrazioni e del Dio in cui ha sempre detto di credere. E’ ancora schiavo della ricerca di paradisi artificiali, privo di un vero amore che lo sostenga anche socialmente, conscio di trovare ascolto solo da nicchie interessate più a usarlo che a supportarlo; e al corrente in anticipo delle sorti del mondo che a noi divengono palesi solo quando si manifestano nel quotidiano.

Il fatto ci riporta alla mente il suicidio del terzogenito dello Shah di Persia, Alì Reza, che si sparò nel 2011 a Boston, benché a quel punto i problemi della famiglia si fossero sistemati e la sua compagna aspettasse un figlio. La casa imperiale, per bocca del fratello maggiore, attribuì il gesto a una feroce depressione dovuta sia al precedente analogo atto della sorella più giovane Leila, nel 2001, che all’angoscia per la situazione mondiale. Vero o meno, non è un aspetto da sottovalutare. Chi nasce in determinati ambiti conosce presto realtà ignote alla massa, e può sviluppare malinconie che risparmiano il popolo ignaro. Se a questo si accompagnano personali disavventure, la vita si brucia in fretta, dopo aver sperimentato in pochi anni ciò che in genere occupa intere esistenze “normali”.

Forse c’è stata una cospirazione, ma di tipo emotivo e morale. Il suo entourage lo ha lentamente isolato; e ancora forse, qualcuno lo ha indotto a un gesto estremo, ma non sapremo mai chi, anche se oggi l’induzione al suicidio è considerato un grave reato.

Il destino ultimo di Edoardo è celato a quel mondo che è andato avanti senza di lui, così come la sua famiglia, tra alti e bassi, contrasti e incomprensioni, tra eredi “giusti” e quelli meno riusciti in carriera, tra cui non si annovera solo lo spericolato Lapo. Il marito di Margherita, Serge, è stato allontanato dagli affari di famiglia e “accusato” di eccessiva vicinanza alla Russia.

Una morte come quella di Edoardo sembra aver tolto delle castagne dal fuoco, ma forse è stato il colpo di grazia per papà Gianni, che a suo modo avrà amato il figlio “sbagliato”.

Carmen Gueye

Riguardo l'autore

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Carmen Gueye genovese laureata in lettere antiche, già pubblicista e attiva nel sociale, è autrice di romanzi, saggi e testi giuridici