I sospetti sulla morte
Occorre giocoforza appoggiarsi al mare di resoconti, chissà quanto affidabili, usciti in sessant’anni. Il nostro testo base rimane sempre “Dea, le vite segrete di Marilyn Monroe” di Anthony Summers.
Era una giornata afosa, sui trenta gradi, quel sabato quattro agosto, a Los Angeles. L’attrice, disoccupata per il momentaneo allontanamento imposto dai produttori dell’ultimo film, era in casa con la matura governante, Eunice Murray, che mal sopportava le bizze della padrona e a volte ci litigava, minacciando di licenziarsi. La notte prima aveva dormito lì anche l’amica e addetta stampa Pat Newcomb, di diversi anni più giovane della Monroe e molto vicina al clan Kennedy.

Non per la prima volta, erano arrivate telefonate anonime, con insulti alla padrona di casa e la Monroe era agitata, più del solito. Di solito la star dormiva poco, sempre aiutata da farmaci: quel mattino si svegliò ovviamente tardi, e male. Il genero della Murray, presente per lavori di riparazione, la descrisse sconvolta, senza poterne specificare il motivo. La colazione fu un succo di pompelmo; durante il giorno ben poco sarebbe seguito, forse uova, la dieta abituale da attrice, anche se nessuno la vide bere champagne, come si è favoleggiato. Per rimanere magra, inoltre, Marilyn ricorreva a un sistema usuale all’epoca, il clistere. Tutto ciò sembra riflesso nelle ultime fotografie a lei scattate qualche giorno avanti sulla spiaggia: nonostante fosse ancora la sexy bambolina desiderata da tutto il pianeta e avesse cantato al compleanno del presidente solo un paio di mesi prima, appariva un po’ smagrita, sciupata. In mattinata le giunse un pacco regalo, contente un pupazzo a forma di giraffa, e la destinataria apparve contrariata dopo averlo aperto. Non si sa chi l’avesse inviato. La giraffa compare nelle foto accanto alla piscina, scattate dopo la morte.
Non c’erano uscite in programma. Per la diva, incredibilmente, si prospettava un sabato sera estivo sola in casa. Il suo psichiatra, l’eminente dottor Greenson, che per una volta non aveva voluto rimanere ad assisterla, stanco di una assiduità su cui ormai tutti malignavano, prima di andare in vacanza in Europa le aveva prescritto di bere molta acqua e riposarsi.
La ricostruzione poggia sostanzialmente sulla testimonianza di due persone: la citata governante Murray e l’attore Peter Lawford, cognato dei Kennedy, avendone sposato la sorella Patricia. Era costui un attore comprimario, noto libertino alcolizzato, descritto come arrogante, ruffiano degli illustri parenti, manutengolo degli amici cui forniva donnine: tra essi, il solito Sinatra, con cui condivideva l’appartenenza al Rat Pack, circolo di sodali buffoncelli ed etilisti, prima diretto da Humphrey Bogart, poi passato nelle mani di Frank.
Lawford rilasciò, nell’immediato e durante la breve inchiesta che seguì alla morte, differenti versioni dell’accaduto, parlando di una festa in una villa sul mare da amici comuni; da lì avrebbe telefonicamente invitato Marilyn, di cui si professava amico (forse), e occasionale amante (e parrebbe proprio di no).

Tuttavia, stando alle sue parole, lei avrebbe rifiutato l’invito, minacciando, già per telefono, intenzioni suicide. Peter è morto sessantenne, nel 1984, senza scucire più nulla di interessante sull’argomento, ma sia la sua seconda moglie Deborah Gould, che la terza Mary Rowan, hanno dichiarato ai giornalisti che, probabilmente, ben poco di vero ci fosse nelle dichiarazioni ufficiali agli investigatori: dalle confidenze ricevute dal marito avevano tratto la convinzione che sulla vicenda fosse stata stesa una coltre di omertà.
Altri ospiti di quella festa, come gli allora fidanzati Natalie Wood e Warren Beatty, rifiutarono sempre di accennarvi, mentre gli organizzatori del party hanno raccontato che Lawford passò il tempo a bere, e non fu visto al telefono.
La signora Murray si ostinò sempre a dichiarare di essere andata a dormire verso le otto, dopo aver sentito musica di Sinatra provenire dalla stanza chiusa di Marilyn; e che sotto la porta passava la prolunga del telefono, semisepolta da un’alta moquette. Si sa che l’attrice telefonava spesso e lungamente, voleva avere l’apparecchio appresso in ogni stanza e il cordless non era ancora di uso comune. In effetti quel giorno risulterebbero alcune telefonate fatte e ricevute, almeno due date per certe: a un’amica attrice, Jeanne Carmen, che rispose di avere altri impegni e non poter venire a trovarla, e alle sue successive insistenze non rispose; e con il figlio di Joe Di Maggio.
Il massaggiatore Ralph Roberts disse di averla chiamata, ma avrebbe risposto il dottor Greenson, tornato nel frattempo dalle ferie, affermando che lei era fuori casa: circostanza fumosa. Poi troviamo coloro certissimi che la star avrebbe ripetutamente e inutilmente cercato Bob Kennedy: ma dove? Il ministro della giustizia, di sabato, era certamente in qualche sua dimora con la numerosa famiglia e non reperibile attraverso normali canali di comunicazione.
Sempre stando alla sua versione, la Murray si alzò verso mezzanotte, spinta da un “sesto senso” e fu insospettita dalla luce che ancora filtrava dalla porta: molti hanno obiettato, innanzitutto, che la fitta moquette non lo avrebbe permesso, e poi che Monroe poteva essersi addormentata a luce accesa, come talora accadeva.
Invece Eunice si allertò, uscì sul giardino e provò a sbirciare dalla finestra a pian terreno, schermata da pesanti tende, così da non concedere spiragli visivi; la governante chiamò il dottor Greenson, che subito arrivò…alle tre e mezzo del mattino. Infatti è a quell’ora, circa, che si legge sia stata dichiarata la morte. Lo psichiatra e la Murray, entrati a loro dire rompendo il vetro della finestra, continuarono a pasticciare con gli orari; la vedova del capo della Polizia, anni dopo, raccontò che il marito, Parker, incaricato delle indagini, rimase abbottonatissimo per tutta la vita al riguardo anche con lei, che pure qualche indiscrezione aveva provato a cavargli, nel tempo, senza successo.
Intanto venne giorno e il giardino si riempì di personale medico e della polizia mortuaria, oltre a qualche scaltro giornalista riuscito ad eludere la sorveglianza; giunsero poi i detective, qualcuno dei quali in seguito dichiarerà che “qualcosa non tornava”: uno schedario “era sicuramente stato forzato”, non si trovava più la famosa agendina dell’attrice, c’erano bottigliette di farmaci, ma nemmeno un bicchiere per l’acqua che sarebbe servita a deglutire tutti quelli che servivano a farsi fuori. La donna era uscita dalla stanza per procurarsi da bere? Eunice, allarmata già a mezzanotte, non ce lo sa dire. L’agenda è un mito che passa da un personaggio a un altro, senza molte prove.

La tutrice legale della madre di Marilyn fu lasciata entrare e portò via tutto, buttandolo nell’immondizia, compresi i farmaci, “per la sua reputazione”. Nemmeno ci si è accordati sulle modalità del suicidio. Alcuni medici parlarono di quaranta pillole ingerite tutte insieme, il che avrebbe probabilmente provocato fenomeni emetici, invece non rinvenuti; altri di un “continuum” di assunzioni, durante la giornata, che avrebbe fiaccato l’organismo, però: l’attrice sarebbe morta d’improvviso, senza un sintomo, senza chiedere aiuto? E’ curioso questo suicidio: uno dei rari casi in cui si verifica con la vittima non sola in casa o in una camera d’albergo.

Alcune circostanze appaiono verosimili. Nella villetta in stile messicano di Helena Drive, quartiere di Brentwood, ancora sossopra per il recente trasloco, le cose non andarono come è stato detto e ripetuto: tanto, almeno, sarebbe emerso dopo un paio di altre inchieste, avviate in periodi successivi. Il certificato di morte fu trovato in un deposito giudiziario nel 1974. Il discusso medico legale dottor Noguchi, famoso in seguito perché accusato di aver troppo pubblicizzato la sua attività autoptica su deceduti famosi (come lo stesso Bob Kennedy) e di insabbiare i casi, certificò un “suicidio probabile”. Molte fonti anonime e non, una volta trascorsi provvidenziali decenni, hanno mostrato registri e documenti dai quali si evincerebbe, se non sono falsificati, che Marilyn quella notte si fece il tratto in ambulanza da casa all’ospedale e ritorno: ma, morta durante il tragitto, fu poi sistemata in posa alquanto intrigante sul letto, prona, cornetta in mano. La mattina dopo il capo dell’FBI, il famigerato Edgar J. Hoover, fece scomparire le tracce dei movimenti telefonici dell’utenza della star, e questo è un fatto.
Secondo molti la teoria del complotto è tutta una fuffa e sarebbe andata così: la povera ragazza, famosa e desiderata, ma molto malata nell’animo e dai nervi scossi, nonché dalla pillola facile, è morta forse senza volerlo, schiantata dagli abusi. Che si sia tentato di coprire qualche traccia, è normale, poiché la sventurata andava a letto con i due uomini più potenti d’America e la prudenza non è mai troppa. I due fratelli interessati, nei giorni seguenti, non mostrarono particolare afflizione per la scomparsa della comune (almeno per un periodo) amante. Lena Pepitone, la domestica di New York, ospite di Paolo Limiti il 5 agosto 1997, indicò come preferito Bobby.
D’altronde, ci si aspettava forse che John e Bob piangessero davanti a mogli e figli? O al parlamento? Ben altre gatte da pelare avevano e nemmeno tutto quel tempo per fornicare: qualche mordi e fuggi, come è spesso attestato. Mandanti di un omicidio? Per quanto li si possa odiare, è improbabile.
C’è un altro versante goloso. Forse che se le mafie o qualche sicario dei servizi avessero avuto cattive intenzioni, non avrebbero avuto modo di agire con i loro collaudati metodi? Si è insinuato il dubbio non di un omicidio ordito dai Kennedy magari ricattati dalla Monroe, ma di un’operazione tesa a farli cadere: tentativo non riuscito, tanto che si predispose il loro omicidio, giusto per tagliare la testa al toro e non vederne più uno all’orizzonte per sempre. L’attrice Veronica Hamel, che rilevò la villetta col marito, dichiarò che durante la ristrutturazione avrebbero trovato delle serpentine di fili collegate a linee telefoniche segrete, insomma cimici. Il nome che più gira tra i papabili organizzatori dell’assassinio della diva è quello di Sam Giancana, ma la figlia Antoinette respingeva sdegnata le accuse al padre, che anzi era stato un ammiratore di Marilyn.
Il presidente Kennedy, descritto come un puttaniere, in realtà ogni tanto pensava e, benché ingabbiato nel sistema americano, quindi abbastanza ingessato nelle iniziative che pur gli stavano a cuore, si mise di traverso ad alcune lobby che il padre aveva invece blandito, a sua insaputa, per farlo eleggere; e aveva lasciato trapelarequalche veduta spericolata in occasione del progetto del Nuovo Ordine Mondiale. Marilyn, che di suo contava assai poco, sarebbe stata però una pedina di peso, se si fosse riusciti a invischiare il presidente e il fratelloministro nella sua morte.
Negli anni settanta montava il movimento femminista. Non c’era più tempo per occuparsi di queste “vecchie” signore (vecchie anche se morte anzitempo), deluse dall’oblio, che andavano spegnendosi in un sepolcrale silenzio, come Marlene Dietrich, o con l’autodistruzione, come Judy Garland. La donna doveva maturare, essere consapevole di sé, divenire autonoma e non dipendente dalle reazioni al suo fascino, scriveva più o meno Simone de Beauvoir nelle sue bibbie femministe.
Gli anni ottanta furono molto diversi. L’epoca reaganiana si poneva anche l’obiettivo primario della ricreazione di massa, insieme alla rivalutazione della propria “cultura” di base. Nel 1982, complice una “nuova” inchiesta della procura losangelena sulla sua morte, riappare Marylin, rive(n)duta e corretta; una donna avanti con i tempi, che aveva sdoganato la sessualità fino ad allora repressa, ma pure un soggetto interessante per le nuove teorie psicologiche.
La prima parola che si associa a lei è “paura”. La sua vita ne era intrisa, per i traumi del passato che non le davano tregua, fino a provocare vomito, febbre, allergie al momento del ciak, a indurla a fuggire dal set, a sparire per giorni senza dire a nessuno dove andasse.
Le sue paranoie risultarono evidenti nell’ultimo film da lei girato interamente e uscito nelle sale: “The misfits”, in italiano “Gli spostati”, scritto da Miller, suo marito per poco ancora e dal regista stesso, John Houston, apposta per lei, attorniata da coprotagonisti scelti per valorizzarla: Clark Gable, Montgomery Clift, Eli Wallach e l’eccellente comprimaria Thelma Ritter. Il risultato a noi appare buono. La contrapposizione tra mondo maschile e femminile viene resa col massimo della brutalità consentita allora, siamo nel 1960.
Girarlo però fu un tormento. Lei si ammalava, causando interruzioni forzate della lavorazione, e lamentava il modo in cui il regista la trattava, chiamandola sempre, sarcasticamente “tesoro”. C’era del vero, probabilmente, in questa accusa di maschilismo, ma lei non aveva più l’autorevolezza per rendersi credibile, apparendo solo isterica e capricciosa.
L’ultimo suo film è rimasto incompleto. Ce ne parla Harry Weinstein, che chissà se è parente di Harvey, il padre di tutte le molestie sessuali, come se prima Hollywood fosse stata un educandato.
Weinstein l’originale, produttore della pellicola “Something got to give”, traducibile più o meno in “Qualcosa deve succedere”, insieme ad altri ci racconta i retroscena di questa ultima incompiuta fatica della Monroe: lei licenziata, poi però ricontattata perché indispensabile alla riuscita del progetto, e la sorpresa del montaggio digitale delle scene avvenuto di recente. Il film è visibile in tutte le parti girate e ci mostra una Marilyn “cresciuta”, non solo perché ha trentasei anni, ma soprattutto per l’interpretazione controllata, la voce matura al posto della vocina infantile e un po’ da ninfomane che le aveva dato il successo, e soprattutto il ruolo: quello della madre.
Se in recitazione si può notare un buon livello, la parte era fuori squadra. L’unica volta in cui Monroe era stata mamma sullo schermo, nel film agli esordi “Matrimoni a sorpresa” aveva convinto poco; qui, purtroppo, ancor meno. La storia narra di una donna creduta dispersa su di un’isola deserta, che torna vestita come per un party, chioma più bianca che bionda tanto è ossigenata, bagno nuda in piscina.

Lei stessa doveva essere in imbarazzo, sospettava una trappola per affossarla, e si comportò peggio del solito. Durante le riprese marcò visita per andare a New York e cantare, gemendo pornograficamente, alla festa di compleanno di JFK: un gioco al massacro, che terminò con la sua morte.

Carmen Gueye