L’ammetto: vivo in una zona dove la bellezza della natura intriga in una miscela di laghi, fiumi e monti, capace di inspirare la sensibilità artistica in ognuno di noi. Fu in qualche foglio dove, qualche anno addietro e seppur privo di una Ermione a farmi da Musa, mi cimentai nel descrivere il luogo usando spudoratamente, ma soprattutto immeritatamente, il metodo prosaico della poesia nascosta. Più o meno imbrattai il foglio d’inchiostro con queste righe:
In questo colle che sa di eremo, quassù dove la vita scorre lenta e le ore s’annoiano tra loro, io vivo, e scrivo, e qualche volta riesco a sognare. Qua il mattino è bello e gli odori, con i fiori, s’intrecciano tra loro in un connubio di umori mentre i rumori salgono da valle perdendosi tra i pioppi, i pini, e le rose selvatiche appena in boccio. Qualche volta guardo quest’unica strada che scende al paese, non attendo nessuno ma non ho perso la voglia di aspettare. Respiro l’aria del grande fiume perdendo i pensieri tra i flutti. La meraviglia dei colori della fauna regala un sorriso. Il germano e la folaga si rincorrano tra loro, mentre i cigni si specchiano nell’acqua, e le anatre starnazzano giocose. Qua la vita è bella e la natura innamora, nell’abbraccio dei monti attorno la neve pare un quadro di Chagall, un raggio di sole annuncia la Primavera.
Messa da parte qualsiasi velleità manzoniana, immeritata per altro, e riassunte le vesta più consone delle scarpe grosse, ma contraddicendo l’antico detto senza il cervello fino, sacco in spalla, il 25 aprile, sono andato a raccogliere i funghi. Dopo un mese di pioggia ininterrotta, per buona pace della Gretina svedese, un pallido sole era sufficiente per un buon raccolto. Giunto nel bosco del Belpaese dolente e della perduta gente (beh, un po’ di Dante non ha mai fatto male a nessuno) fui colto dall’infinito dolore di non vedere neppure uno straccio di funghetto ma bensì un esercito di lumache con le corna di fuori, rigorosamente in fila per due, le quali avanzavano cantando a squarciagola una vecchia canzonetta di Vasco Scanziani. Ehi, ma le parole non sono queste! Provai ad avvertire. Fu come parlare ai sordi poiché le lumache, imperterrite, alzarono il tono e più cantavano e più allungavano le corna. Fu spassoso vedere queste lumachette simil Pinocchio, in fila, marciare come tanti soldatini dalla faccia di bronzo.
Nato curioso non mi astenni dal fare a meno di seguire questi animaletti cornuti nel tentativo di capire in quale girone si stessero recando. Ed ecco, al confine del bosco indirizzato ad Est, vidi un prato curatissimo per lo più ricco di meravigliosi fiori targati Rolex. Una distesa rigogliosa resa brillante per il luccichio di televisori, radio e social, e dove, al centro del prato, stavano degli spocchiosi porcini senza ali. Erano, costoro, dei funghi alti e belli verso i quali mi diressi convito di avere rimediato il raccolto. Mamma mia, quanti funghi! Pensavo, mentre loro si beavano per la genuflessione delle beate chiocchioline. Proseguii, ma ahimè, malgrado l’apparenza erano tutti velenosi. Il primo, alto e secco come uno stecchino, mi sorrideva nel mentre tentava di rubarmi il portafoglio. Un dilettante, affermò il secondo fungo già proprietario di una barca dal nome mitologico. Guarda me, mi rivolse con malcelata altezzosità, ho ben 80 milioni di provvigione per ribadire che sia solo un piccolo mariolo. Andai oltre rimanendo allibito alla vista di un fungo più grasso della cupola di San Nicola a Bari, capii al volo!
Baciamo le mani, eccellenza, e tirai dritto nel mentre ascoltavo un fungo occhialuto, dalla cappella pelata e lucida come una palla da biliardo, farneticare a più non posso in un monologo buono per le chioccioline plaudenti con il diploma dell’asilo. Il plus ultra fu l’incontro con il fungo tortellino, anch’egli di chioma pelata, mentre pontificava su telefungo dalle labbra plasticate. Il terrorismo degli anni di piombo, sbraitava il fungo tortellin bonacino, l’abbiamo sconfitto noi compagni funghi! Ma non l’avevate definiti “i funghi che sbagliano”? Riflettevo, pensando a “Soccorso Fungo” ed all’infame lettera del fu fungo ramato, in soccorso del criminale Achille Lollo, autore dell’eccidio dei Fratelli Mattei. Una lettera dove la promotrice, Franca Rame, prometteva denaro ed aiuti a pioggia. Come fu. E qui non scherzo più. Troppo schifato per continuare, preferisco rifugiarmi in un ultimo verso sospirando: “Vieni a veder la tua Roma che piange, vedova e sola, e dì e notte chiama: Cesare mio, perché non m’accompagne?
Il 25 aprile? Sono andato a cercare funghi. Quelli buoni. Su questi descritti ho avvertito il dovere morale di mettere un cartello con la scritta: “Velenosi”.
Il 25aprile festeggio il mio onomastico, San Marco, mentre rimpiango l’ultimo Cesare.
Marco Vannucci