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Referendum 8-9 giugno 2025: quorum non raggiunto

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Ancora un referendum non passato: il referendum tenutosi l’8 e 9 giugno non ha raggiunto il quorum necessario. Non è la prima volta che accade, e non sarà probabilmente l’ultima. Ma ogni volta che succede, qualcosa si incrina. Perché al di là della natura del quesito — sul quale, come spesso capita, si può anche discutere legittimamente — il dato più rilevante è che ancora una volta lo strumento referendario è stato svuotato nella sostanza e ridotto a un puro simulacro di partecipazione democratica.

Negli ultimi vent’anni, ogni grande consultazione ha subito lo stesso destino. Nel 2016, il referendum sulle trivelle toccò il 31,2 % di partecipazione — troppo poco per far valere il risultato, nonostante l’85,9 % di sì . Nel 2022, quello sulla giustizia fu un vero flop: quorum fallito con appena il 20,4 % di affluenza. E l’ultima tornata – l’8‑9 giugno 2025 – non fa eccezione: la partecipazione si è attestata intorno al 22,7 %.

Lo diciamo senza giri di parole: è stato un fallimento. E non solo politico. È stato un fallimento istituzionale, culturale e, se vogliamo, anche economico. Perché un referendum che non raggiunge il quorum non è solo una consultazione andata a vuoto, ma è anche denaro pubblico che nei fatti viene speso invano. Una macchina elettorale messa in moto, con costi logistici e umani non irrilevanti, per arrivare a una sentenza di silenzio.

Certo, l’astensionismo può essere a sua volta una forma di dissenso. È una scelta, legittima e prevista dalle regole. Ma quando diventa la regola, quando si trasforma in abitudine, allora il significato originario del referendum — quello di chiamare direttamente il popolo a esprimersi su una questione cruciale — viene meno. Anche perchè non si ha mai la sicurezza se quel “non voto” sia dettato dal dire no o piuttosto indifferenza per i temi che riguardano la nostra società. Proprio l’ipotesi relativa al secondo punto è alla base di preoccupazioni.

Negli anni Settanta e Ottanta, lo strumento referendario era vissuto con fervore: basti pensare ai grandi quesiti abrogativi che hanno segnato la storia italiana, da quello sul divorzio a quello sull’aborto. Oggi, invece, ci si trova di fronte a quesiti tecnici, spesso scritti in modo poco accessibile, capaci di scoraggiare anche i più volenterosi. La complessità delle formule giuridiche, unite alla crescente sfiducia verso le istituzioni, allontana le persone non solo dalle urne, ma dal concetto stesso di cittadinanza attiva.

Ci si interroga allora: che fine ha fatto quella “democrazia diretta” che anche qualche partito in Italia sino a pochi anni fa riteneva un ottimo strumento all’onnipotenza delle assemblee parlamentari? E perché nessuno, in oltre settant’anni di Repubblica, è mai riuscito a proporre e approvare una riforma che rendesse davvero cogente, e non solo simbolico, il ricorso al voto popolare?

Forse la risposta è nella Costituzione stessa, che non ha mai visto di buon occhio il referendum. Non a caso è uno strumento limitato, incasellato tra rigidità procedurali e paletti giuridici. Ma forse è anche nel fatto che il cittadino medio è stato progressivamente spogliato di ogni ruolo reale. Chiamato a votare, sì, ma sempre più spesso in un contesto dove la sua voce non cambia nulla.

Il consultivo, poi, è ormai ridotto a un rito privo di esiti. Si consulta, si ascolta, si archivia. E la distanza tra popolo e istituzioni si allarga. Nel 2017 in Lombardia e Veneto si era votato per l’autonomia. A oggi nessuna decisa e chiara volontà nonostante l’ampia partecipazione.