In occasione del bimillenario della morte di Ovidio, sommo poeta latino vissuto a Sulmona a cavallo tra il I sec. a.C. ed il I sec. d.C., è interessante fermarsi a riflettere sul perché sia morto lontano da Roma, a Tomi (attuale Costanza, in Romania).
Le cause di questa relegazione lontano dalla propria città sono ancora oggi discusse da parte dei grandi studiosi della latinità: perlopiù ci si basa sui versi 207-208 del II libro della raccolta dei Tristia,
«Perdiderint cum me duo crimina, carmen et error alterius facti culpa silenda mihi.»
«Due crimini mi hanno perduto, un carme e un errore: di questo debbo tacere quale è stata la colpa.»
Il carme è unanimemente individuato come l’Ars Amatoria, la sua opera sull’arte di amare, anche in modo libero, che fece tanto scalpore in un momento di dura condanna dell’adulterio e di moralizzazione dei costumi, tanto da condurre alla relegatio: bisogna infatti precisare che non fu un vero e proprio esilio, ma una relegazione, in quanto il poeta non subì la confisca dei beni, ma fu semplicemente allontanato dalla città.
Per quanto riguarda invece l’errore da punire così duramente, i pareri non sono affatto concordi.
Paolo Fedeli, Angelo Roncoroni, Roberto Gazich e gli altri studiosi concordano perlopiù a dire che potrebbe aver assistito alla scandalosa relazione della nipote dell’Imperatore, Giulia Minore, con un giovane, Decimo Giunio Silano: per questo sia la donna sia il poeta sarebbero stati esiliati: magari la donna aveva semplicemente letto l’opera ovidiana, e per questo considerato complice. Per qualcun altro sarebbe stato lui stesso l’amante di Giulia.
Aldo Luisi ha invece sollevato l’ipotesi che le allusioni e i parallelismi negli Amores possono essere stati visti come un tentativo per danneggiare l’immagine di Tiberio, intralciando così i piani di successione dell’imperatrice Livia.
Qualcun altro ha detto che, essendo Ovidio un amatissimo poeta e facendo innamorare di sé molte matrone romane grazie ai suoi versi poetici, anche Livia, la terza moglie dell’Imperatore Ottaviano Augusto, se ne sarebbe innamorata: e quando invece Ovidio ha deciso di trasformare Giulia minore nella sua Musa, Livia per gelosia avrebbe tramato contro entrambi unendosi ai nemici di Ovidio. La relegatio sarebbe servita dunque a Livia per ottenere un doppio scopo, cioè allontanare i possibili successori di Ottaviano e favorire così il proprio figlio Tiberio ed al contempo non vedere più Ovidio, sentendosi da lui tradita.
Un’altra ipotesi sarebbe quella a favore della sua partecipazione alla congiura di Agrippa Pòstumo, pretendente al trono, contro Tiberio.
Nel 1923 J.J. Hartmann ha proposto la teoria più fantasiosa, ovvero che il poeta si sia inventato la relegatio così come ha creato le sue fantasiose opere. Numerosi autori lo hanno seguito a ruota, ed in particolare A.D. Fitton Brown, che ha notato come effettivamente solo nelle sue opere si parla di tale relegazione.
Comunque sia, si sa che quando seppe di essere stato oggetto dell’editto dell’Imperatore Augusto, Ovidio si trovava all’isola d’Elba: dopo una rapida sosta a Roma, fu costretto rapidamente a partire. La sua disperazione si può leggere in quelle che vengono comunemente definite opere dell’esilio, i particolare i Tristia, e le Epistulae ex Ponto.
Nei Tristia (“Tristezze”), ovvero una raccolta di 50 componimenti suddivisa in cinque libri, mancano i nomi dei destinatari delle singole elegie, eccezion fatta per quelle indirizzate alla moglie e ad alcuni membri della famiglia di Ottaviano Augusto. Forse il poeta non voleva coinvolgere gli amici nelle sue vicende, oppure gli amici stessi avevano chiesto di non essere citati. Il poeta descrive inoltre l’ultima notte trascorsa in casa, accanto alla moglie e agli amici in lacrime, come fosse un dramma simile a quello di Enea esule da Troia.
Tra i numerosi destinatari compare più volte il nome di Augusto, soprattutto nella lunghissima elegia che compone il II libro. In essa il poeta si difende accoratamente dalle accuse che aveva subito, specialmente quella di essersi fatto maestro di adulterio attraverso l’Ars amatoria. Più volte supplica Augusto di placare la sua ira, concedendogli almeno di essere relegato in un luogo lontano da barbari dalla lingua sconosciuta, meno inospitale. Infatti un ben collaudato luogo comune attribuiva alla regione attorno a Tomi il carattere di luogo barbaro ed inospitale, ai limiti estremi dell’Impero, caratterizzata da nevi perenni ed acque ghiacciate. I suoi abitanti vengono esageratamente descritti da Ovidio come ex-Greci mischiati coi Geti, dalle lunghe barbe ed i capelli pieni di ghiaccioli, che girano con frecce avvelenate e coltelli. Ovidio dice anche ad Augusto che magari non aveva letto bene i suoi versi prima di condannarli, visto che anche una mente divina potrebbe ingannarsi.
Anche le Epistulae ex Ponto sono caratterizzate dalle medesime tematiche: in questo caso però ogni lettera ha un preciso destinatario, che spesso ricopre un ruolo preciso nella società e che potrebbe perorare la giusta causa ovidiana. Ovidio giustifica il disinteresse di Augusto nei suoi confronti perché l’Imperatore era troppo impegnato per curarsi di lui. Alla morte di Augusto, Ovidio scrive di essere angosciato al solo pensiero di ricominciare la trafila per chiedere pietà all’Imperatore: per prima cosa compone dunque un tema sulla divinizzazione di Augusto e lo invia a Roma, poi supplica anche Tiberio, il nuovo Imperatore, e Germanico, grande condottiero del tempo. Eppure, per un motivo oscuro, neppure loro deliberano di ricondurlo a Roma.
Ovidio morirà comunque a Tomi, dieci anni dopo l’inizio del suo esilio, lasciando avvolte nel mistero le cause.
Silvia Vazzana