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I 25 anni dell'Accordo Vaticano-Israele, tra riconoscimento e tensioni

Il 30 dicembre scorso sono ricorsi i 25 anni dello storico Accordo Fondamentale tra Vaticano ed Israele. Il processo di avvicinamento e riconciliazione fra i due Stati, culminato nel dicembre del 1993, ha attraversato varie fasi e difficoltà dalla fondazione di Israele ed è ancora oggi motivo di tensioni e dissapori.

Lo Stato ebraico nacque in Palestina nel maggio del 1948 per volere dell’ONU, ma la storia dei rapporti tra queste due entità risale agli inizi del secolo, quando Israele era ancora pura teoria. Nel 1904 uno dei due fondatori del sionismo, Theodor Herzl, incontrò Papa Pio X in Vaticano e gli sottopose la proposta cardine del neonato sionismo, ovvero il ritorno in Terrasanta degli ebrei e la conseguente creazione di un’enclave sicura per chiunque volesse trasferirsi, chiedendo pubblico appoggio. Pio X fu piuttosto lapidario, rispondendo che le terre di Palestina erano sante proprio grazie alle opere del Messia, di conseguenza “gli ebrei non hanno riconosciuto nostro Signore, perciò non possiamo riconoscere il popolo ebraico“. All’epoca probabilmente il Vaticano temeva che una Terrasanta in mano ebraica avrebbe completamente estromesso i cristiani dalla stessa, senza contare che l’appoggio diretto al sionismo avrebbe relegato la Chiesa in una posizione “di minoranza” rispetto al resto dell’Occidente, mostrando quindi una certa debolezza. Nel rifiuto categorico non si può nemmeno escludere un certo sentimento vagamente antisemita, che permaneva da secoli in Europa.

Tornando al ’48, la creazione dello Stato israeliano dette inizio alla lunga serie di tensioni nella zona che conosciamo bene anche oggi. Il Vaticano non riconobbe mai ufficialmente lo Stato neonato, ma le cose iniziarono a cambiare col viaggio in Terrasanta di Paolo VI. Papa Montini fu il primo successore di Pietro a tornare in Terrasanta, nello storico soggiorno dal 4 al 6 dicembre del 1964. Paolo VI visitò i luoghi simbolo della cristianità e celebrò l’Epifania nella Grotta della Natività a Betlemme, ovunque accolto da un sorprendente bagno di folla. Il pellegrinaggio del Santo Padre rappresentò una svolta storica, visti anche gli incontri con le autorità del luogo, ma rimase comunque un’esperienza limitata se si pensa che il successivo viaggio di un pontefice in Israele fu quello di Giovanni Paolo II nel marzo del 2000. Papa Wojtyla nel discorso fatto ad Amman sentenziò che non importa quanto difficile, non importa quanto lungo, il processo di pace deve continuare. Un clima diverso rispetto al ’64, un clima che prevedeva la piena coscienza dello scontro con i palestinesi e l’occupazione forzosa di territori perpetrata negli ultimi decenni dagli israeliani. Tornando all’Accordo Fondamentale, sempre sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, nel 1991 qualcosa mutò definitivamente.

Israele, nei decenni che seguirono la fondazione, non impedì mai i pellegrinaggi cristiani e partecipò inoltre con delle delegazioni a vari momenti fondamentali nella vita della Santa Sede. Nel 1991 il clima in Vaticano era cambiato e, visti tutti i precedenti positivi, un folto gruppo di cardinali si dimostrò favorevole ad una normalizzazione dei rapporti Chiesa-Israele. Il passo successivo avvenne nel 1992 con l’istituzione di una commissione bilaterale permanente su due livelli – politico e tecnico – che stabilisse i temi di discussione che sarebbero poi entrati nell’accordo definitivo. Il testo finale venne firmato il 30 dicembre del 1993 dal sottosegretario di Stato Vaticano Monsignor Celli e dal viceministro degli Esteri Yossi Beilin a Gerusalemme, con gli occhi del mondo puntati addosso. Beilin stesso raccontò poi, nel 2003, come si arrivò a quello storico accordo. I cristiani miravano principalmente alla risoluzione pratica delle questioni pendenti, e meno all’aspetto diplomatico. Alla Santa Sede interessavano insomma le controversie economiche e giuridiche quali la tassazione ecclesiastica, l’apertura di nuove scuole cattoliche e la libertà di culto. Gli israeliani, proprio perché mai riconosciuti, puntavano invece ad un testo che non lasciasse dubbi sull’ammissione giuridica e simbolica della loro esistenza come nazione. Dopo un incontro segreto finale fra i due firmatari e la risoluzione delle questioni pendenti il testo definitivo venne approvato nelle ultime settimane di dicembre.

I primi nove articoli riguardano l’affermazione reciproca della libertà di culto, in tutti i modi nella quale essa si esprime: celebrazioni religiose, opere di carità e istruzione religiosa; viene qui ribadita la lotta all’antisemitismo e al razzismo con la conseguente promozione di scambi culturali. Nel decimo articolo viene sostanzialmente rimandata ai prossimi anni una risoluzione in ambito economico per quanto riguarda le proprietà della Chiesa, presenti e soprattutto future – non a caso la commissione fondata nel ’92 è definita “permanente”. Di particolare interesse è la seconda parte dell’undicesimo articolo, dove si ricorda che “[l]a Santa Sede, fatto salvo in ogni caso il diritto a esercitare il proprio magistero morale e spirituale, ritiene opportuno richiamare che, a motivo del suo stesso carattere, è solennemente impegnata a rimanere estranea a qualsiasi conflitto puramente temporale; tale principio è valido in particolare per i territori disputati e le frontiere non definite“. Abbastanza chiare qui le spinte israeliane, dato l’enorme potere mediatico del Vaticano, verso un auspicabile silenzio sulle questioni palestinesi. Quanto alla parte strettamente diplomatica nell’articolo quattordici si stabiliscono la nascita dell’ambasciata israeliana e della nunziatura apostolica, a definitivo riconoscimento dello stato ebraico. L’accordo divenne effettivo a partire dal 10 maggio 1994.

Oggi questo documento resta di importanza cardinale nonostante i rapporti tra Chiesa e Israele abbiano subito varie frizioni negli ultimi quindici anni. Non bisogna dimenticare che l’accordo nasce nel clima della conferenza di Madrid e dei successivi accordi di Oslo, risoluzioni votate, tra le altre cose, alla riappacificazione e serena convivenza tra palestinesi e israeliani. La Santa Sede, almeno da Giovanni Paolo II in poi, si è sempre espressa a favore della causa palestinese se non addirittura invocando la nascita di uno Stato arabo autonomo e cooperante coi vicini ebrei, cercando allo stesso tempo di mantenere buoni rapporti con questi ultimi. Particolarmente significative sono state le dichiarazioni di Benedetto XVI del 2009 e di Papa Francesco nel 2014 a favore di “due Stati per due popoli”, e ancor più determinante è stato il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte del Vaticano nel 2015, che suscitò il disappunto di Israele. Altro punto di attrito riguarda la città di Gerusalemme, che la Chiesa vorrebbe da sempre come soggetto extranazionale controllato dalla comunità internazionale. A maggior ragione quindi ha suscitato forte preoccupazione la legge dell’estate scorsa che definisce Israele come Stato esclusivamente ebraico, norma che sembra destinata ad aumentare le tensioni e sconfessa in parte proprio lo storico accordo del 1993.

Curiosità: il primo Stato arabo a riconoscere l’esistenza di Israele fu l’Egitto di al-Sadat, in seguito alla guerra del Kippur del 1973 e la successiva pace di Camp David del 1978. Al-Sadat stesso parlò al parlamento di Tel Aviv e firmò la pace, riconoscendo di fatto lo Stato ebraico. Il colonello pagò con l’estromissione dell’Egitto dalla lega dei paesi arabi e con la vita a seguito di un attentato nel 1981.