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UE, l’accordo sul Recovery Fund è una vittoria a metà. L’ultimo duello in nottata tra Conte e Rutte, che la spunta ancora

Si è alla fine concluso il vertice europeo in cui Conte e i suoi colleghi hanno discusso le misure economiche comuni da attuare per arginare la crisi conseguente alla pandemia da Coronavirus. I ventisette capi di Stato e di governo hanno approvato, dopo 92 ore di Consiglio Ue (il più lungo in assoluto della storia) il pacchetto da 750 miliardi per la ricostruzione post-pandemia, suddiviso in 390 di sovvenzioni e 360 di prestiti. Ma è una vittoria a metà per l’Italia, che ha lasciato qualcosina sul tavolo in favore del vero vincitore: il Premier olandese Rutte. Dei 750 miliardi totali infatti, le sovvenzioni a fondo perduto del Recovery scendono a 390 miliardi, sotto la soglia psicologica dei 400, mentre i prestiti salgono a 360. Con la possibilità, per i Paesi “frugali” di sconti pari a 26miliardi sui rebates; veri e propri sconti sui contributi al bilancio Ue. 

All’Italia andrà il 28% del Recovery Fund? Sì, ma ecco come

E se all’Italia andrà il 28% del Recovery Fund, il pacchetto messo in campo dalla Commissione europea, occorre ribadire tuttavia come molti di questi soldi (209 miliardi), verranno concessi sotto forma di prestiti. Dagli iniziali 91 passano a 127, da restituire ad un bassissimo tasso d’interesse nel corso degli anni e su precise indicazioni della Commissione europea, con meno soldi a fondo perduto e la possibilità (a questo punto non remota) che se queste riforme non dovessero convincere, i Paesi contrari potrebbero pure attivare il cosiddetto “freno di emergenza” voluto da Rutte. Una vittoria a metà.

Soldi che tuttavia non arriveranno subito, ma forse nella primavera del 2021, da spendere entro il 2023

In questi giorni, analisti politici ma anche finanziari si sono concentrati sul commentare come e in che misura i “paesi frugali” abbiano ostacolato la nascita del cosiddetto Recovery Fund, ovvero un aiuto europeo a fondo perduto da concedere ai Paesi membri.

Da parte di certa stampa, è emersa subito una sostanziale critica verso Svezia, Danimarca, Finlandia, Austria e – in modo ancor più deciso – Olanda, rei di non aver accolto senza remore l’idea del Recovery Fund, propugnata invece da Conte, Macron e i Paesi dell’Europa mediterranea, sostenuti almeno verbalmente anche dal prima “illiberale” e “pericoloso” Viktor Orban. L’unico, però, ad aver pubblicamente preso le difese del Premier Conte in questi giorni di vertice.

Alla presidenza dell’Unione Europea c’è una nuova vecchia conoscenza, Angela Merkel: spetta infatti alla Germania la Presidenza in questo difficile semestre, dove bisognerà dare risposte concrete dopo i primi sei mesi terribilmente condizionati dalla malattia. La Merkel si è però trovata tra l’incudine e il martello: da un lato il rigore dei “paesi frugali”, dall’altro la richiesta d’aiuto di chi sta segnando cifre – negative – da capogiro per quanto riguarda la possibile compressione economica post-pandemia.

A chi la ragione? Difficile dirlo, ma certamente prima di sparare sul pianista – in questo caso il Rutte o il Kurz di turno – sarebbe opportuno fare chiarezza: i “Paesi frugali”, chiamati impropriamente così per la loro presunta “tirchieria” come se invece Francia e Germania in passato fossero stati “Paesi parchi”, non hanno mai detto no a prescindere agli aiuti. Hanno semplicemente chiesto, i cattivoni, di sapere in che modo e secondo quale programmazione spendere questi denari.

Una presa di posizione che ricorda molto quel “rigore” e quella “serietà” del Centro-sinistra, buona parte del Movimento 5 Stelle e i montiani nostrani

Quest’ultimi, non molto tempo fa, erano gli stessi che chiedevano a gran voce in risposta al “malgoverno” di Berlusconi e soci, che invece oggi nel più classico dei contrappassi danteschi si ripercuote proprio su una maggioranza giallorossa che di programmazione ha fatto finora ben poco.

Si potrebbe obiettare che non ne hanno avuto il tempo: il Conte-bis si è infatti insediato a settembre e già a febbraio si è trovato legato mani e piedi dal Covid-19, costringendo a muoversi con rapidità per ridare slancio all’economia italiana. Tutto vero, ma c’è un però: nella valutazione dell’effettiva bontà nella spesa pubblica, non si guarda solo al “momentum”, ma al “trend” e non dev’essere facile presentare un progetto “rigorista” attendibile quando finora sono stati concessi solo svariati bonus, una cassa integrazione per le partite IVA tanto onerosa per lo Stato quanto scarsamente efficace per i riceventi, il tutto corredato dall’ennesima regalìa ad Alitalia, finanziata con un investimento pari al doppio di quanto speso per le scuole. Last but not least, la “ripresa” delle autostrade, con un’operazione economica che di certo non ha sfavorito i Benetton a vantaggio dello Stato.

Tutto questo sommato, il quadro per Conte, Gualtieri e Gentiloni è abbastanza disarmante:

Dal canto loro, i “paesi frugali” non sembravano minimamente intenzionati a mollare, forse anche non perfettamente consci di quanto il virus abbia inciso sulle nostre vite – in Svezia non c’è mai stato il lockdown e di fatto non hanno registrato una crisi economica ingente come l’Italia – ma al contempo l’Italia non si sta dimostrando capace di mettere sul piatto una qualsiasi riforma che possa in qualche modo incentivare gli altri Paesi europei a darle credito, ideologico prima ancora che monetario. Per la Commissione europea, occorre ribadirlo, siamo in doppia sanzione.

Bisognerebbe allora riconsiderare il vertice europeo da un punto di vista duplice:

Da un lato, sarebbe quantomeno ora di smettere di elogiare tutto ciò che è esterno ai confini nazionali, parlando liricamente di rigore e serietà pretendendo però che questi non ci siano quando a essere in difficoltà è l’Italia; dall’altro, bisognerebbe cominciare ad ammettere l’impossibilità con questa variegata maggioranza di proporre riforme strutturali e svegliarsi dal torpore antisalviniano – ultimamente anche antimeloniano – che ricorda molto la Sinistra dei primi anni 2000, il cui unico obiettivo era impedire che Berlusconi andasse al potere senza proporre però un’idea, una visione e una programmazione. Ci auguriamo che, questa volta, l’Italia sappia come spendere adeguatamente questi soldi, con riforme mirate e strutturate. Per il bene del Paese.

di Giuseppe Papalia e Riccardo Ficara

Riguardo l'autore

giuseppepapalia

Classe 1993. Giornalista pubblicista, consulente di comunicazione per i deputati al Parlamento europeo, corrispondente da Bruxelles. Una laurea in scienze della comunicazione e una magistrale in giornalismo con indirizzo “relazioni pubbliche” all'Università degli studi di Verona. Ha collaborato con alcuni giornali locali, riviste di settore e per alcune emittenti televisive dalle istituzioni europee a Bruxelles e Strasburgo. Con TotalEU Production dal 2019, ho collaborato in qualità di social media manager e consulente di comunicazione politica.

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