Lo so, noi anziani siamo pallosi. Passiamo il tempo a scuotere il testone e a dire come si stava meglio ai nostri tempi. Abbiamo una serie di prevedibilissimi luoghi comuni, che scioriniamo dopo un paio di birre: la naja, coi suoi aneddoti sempre uguali, oppure la militanza, con i soliti episodi di fulgido eroismo e le cicatrici invisibili.
Percepiamo sempre un vago compatimento, negli occhi dei giovani, quando accenniamo a una delle nostre tare senili: un fulmineo incrociarsi di sguardi, che stanno ad indicare che siamo matti. O, peggio, rinciuliti. In fondo, è sempre stato così: il trisavolo garibaldino appallava il bisnonno che era stato ad Adua con Dabormida e la rimenava al nonno, del Quinto alpini, che, per non essere da meno, si era preso una scheggia nella coscia in Adamello.
Con dei precedenti del genere, che siamo noiosetti e un tantino retorici è il minimo. In verità, i nostri tempi non erano affatto migliori, anzi: probabilmente, ci sembrano, oggi, bellissimi, perché eravamo noi ad esserlo. Eravamo stupendi come tutti i giovani: con muscoli guizzanti e la parola pronta. O, forse, non eravamo neppure tanto belli: vattelapesca. Fatto sta che, adesso che, quando cambia il tempo, ci scricchiolano le giunture e salire al Carè Alto ci sembra la nord dell’Eiger, ci rimane molto più tempo per osservare, per raccontare, per confrontare. Ve l’ho detto: la maggior parte sono ubbie legate all’età. Ricordi che vengono su, come le bolle in un pozzo: pensieri slegati e un po’ sghembi.
Ma una cosa perlomeno ve la posso assicurare: mai abbiamo visto giorni politicamente miserandi come questi. In quest’epoca di meravigliosa tecnologia, di miracolosi ordigni, il livello degli uomini che ci governano è spaventosamente basso: è come se dei bambini idioti giocassero con la consolle di comando del NORAD. Non possiamo nemmeno azzardare il solito paragone col tempo che fu, perché questa teppaglia è imparagonabile con i politici del passato, perfino coi peggiori: raccontarne le opere e le sortite al trisavolo, al bisnonno, al nonno o anche solo al padre susciterebbe incredulità e qualche risata benevola, per la sfrenata fantasia creativa del discendente.
Non ci crederebbero: nati e cresciuti in un mondo duro e diffidente, lento e violento, mai e poi mai potrebbero immaginare che chi comanda sia scelto senza alcuna selezione, senza alcun tirocinio, raccattato, per così dire, dal fango della strada. Certe leggi, certe boutades, sarebbero per loro, per i nostri antenati, semplicemente incredibili. Loro si indignavano per il trasformismo, per le capriole di Depretis, la doppiezza di Minghetti, gli accordi sottobanco di Giolitti, l’opportunismo di De Gasperi: ma mai avrebbero potuto immaginare questa classe politica di guitti e di sprovveduti.
E, per certo, se, di fronte a loro, qualcuno avesse insultato una donna morta da poco, per ragioni di bassissima propaganda, lo avrebbero schiaffeggiato e gli avrebbero chiesto soddisfazione. Ecco, in questo, probabilmente, il presente è diverso da qualunque passato: nell’assoluta assenza di stile, nell’abdicazione dai più elementari valori dell’educazione e dell’umanità.
Eppure, anche se siamo vecchierelli e abbiamo le ginocchia giacomette, due belle pappine a quell’incivile che ha ironizzato sull’elezione di una malata di cancro gliele daremmo. Ma, siccome abbiamo imparato a conoscere e giudicare i nostri simili, nutriamo una confidente certezza circa il fatto che, di fronte alle nostre intenzioni bellicose, il villano prenderebbe la fuga, sfruttando la maggiore prontezza delle sue gambette.
Perciò, cari giovani, tocca a voi difendere certi valori.
O, perlomeno, ad acchiappare chi li calpesta e tenercelo fermo.
Una volta a tiro, noialtri vecchietti, possiamo ancora cavarcela da soli.
Marco Cimmino