La situazione politica internazionale, anche alla luce della pandemia in corso, sta cambiando radicalmente. Già in passato si parlò di “fine” della destra e della sinistra oppure di scontro post-ideologico, con la seconda interpretazione forse più azzeccata della prima. Ora lo scenario dello scontro politico sembra essersi spostato sul tema ambientale, con effetti abbastanza visibili.
Al Parlamento europeo, lo scorso anno, sono stati eletti 74 eurodeputati per il partito dei Verdi, circa il 10% totale degli eletti. Una crescita importante, se si pensa che nel 2014 erano 50 in tutto rappresentando circa il 6,5% dell’aula. Ma non è stato un “effetto Greta”: più che essere stata la Thunberg a trascinare i Verdi verso questo risultato, sarebbe più giusto dire che i Verdi hanno costruito il teatro, preparato il copione, sistemato le luci e portato il pubblico in sala per ascoltare la narrazione di Greta.
Il lavoro dei Verdi nel corso degli anni infatti è stato certosino e strategicamente ineccepibile, basti vedere i risultati di alcune elezioni politiche e amministrative: in Austria il Presidente della Repubblica eletto nel 2016 è Alexander van der Bellen, indipendente sostenuto proprio dai Verdi che è riuscito a “doppiare” i consensi della SPÖ, il principale partito di sinistra del Paese. La vittoria è avvenuta al ballottaggio contro Norbert Hofer, candidato del partito euroscettico di estrema destra FPÖ, che era riuscito a trionfare i tutti i Land (regioni autonome) del Paese. Tutti tranne uno: quello di Vienna. Oggi i Verdi sono al Governo del Paese insieme al centrodestra, rappresentato dalla ÖVP di Sebastian Kurz.
Quello delle grandi città come Vienna è un leitmotiv dell’azione dei Verdi, basti guardare le recenti elezioni amministrative francesi: il partito Europe Écologie Les Verts ha vinto la sfida trionfando in diverse grandi città del Paese, come Marsiglia, Strasburgo e Bordeaux, confermandosi per un secondo mandato a Grenoble. Straordinario il successo a Lione, dove i Verdi non solo hanno ottenuto il Sindaco, ma anche il controllo di 7 dei 9 arrondissements, l’equivalente delle nostre circoscrizioni elettorali. I Verdi hanno ottenuto anche un grande risultato a Parigi, dove con più del 10% dei consensi sono risultati decisivi per la rielezione di Anne Hidalgo, Sindaca uscente del Partito Socialista.
Una situazione molto simile è visibile in Germania: al potere nella città di Stoccarda dal 2013, i Verdi hanno recentemente conquistato i comuni di Hannover e Bonn, riuscendo anche a confermare il proprio ruolo di parte della maggioranza a Colonia, dove governano insieme alla CDU di Angela Merkel e al FDP, il partito liberale tedesco, costituendo la cosiddetta “Jamaika Koalition“, essendo i colori rappresentativi dei tre partiti il verde, il nero e il giallo.
Una “Jamaika Koalition” che presto potrebbe essere riproposta in Germania: il prossimo anno – Covid permettendo – si terranno le elezioni federali e la sinistra tedesca è in grande difficoltà. Alle scorse elezioni europee, la SPD di Martin Schulz ha incassato una sonora sconfitta, chiudendo con il 15,82% (dal 27,26% del 2014) e il terzo posto, sorpassata proprio dai Verdi che hanno raggiunto la cifra record di 7 milioni e mezzo di voti, pari al 20,53% delle preferenze primeggiando a Berlino, Amburgo e Monaco di Baviera, ovvero le prime tre città del Paese.
Se la CDU, grazie anche alla buona gestione della pandemia da parte della Merkel, arriverà indubbiamente al primo posto, la sfida per la seconda piazza vede i Verdi ancora avvantaggiati rispetto ai socialdemocratici e non è da escludere che stavolta i seggi conquistati dai “rossi” non siano necessari per costituire una maggioranza di Governo stabile.
La questione delle grandi città sempre più saldamente in mano ai Verdi deve far riflettere il centrodestra in tutto il mondo: se una volta la grande città – tradizionalmente a sinistra – veniva poi “pareggiata” dalle periferie e dalle campagne, in genere habitat naturale dell’elettorato di destra, ora la disparità è più ampia. Basti vedere i risultati delle presidenziali americane, dove tutti i distretti delle grandi città sono andati saldamente a Joe Biden e i voti delle aree periferiche, pur essendo totalmente favorevoli a Donald Trump non sono risultati sufficienti a sovvertire il risultato.
Se quindi il tema ambientale è rilevante per le grandi città, la destra non deve aver paura di maneggiarlo, purché lo faccia con criterio e seguendo la propria identità. Il rischio è infatti di fare un’uscita improvvida come quella di Boris Johnson: il Premier britannico, infatti, ha dato una “svolta green” ai suoi Conservatori, firmando una legge che vedrà la fine della vendita di auto a benzina e diesel nel 2030 in tutto il Regno Unito, permettendo la distribuzione delle auto ibride fino al 2035 prima di convertire tutto all’elettrico.
Un’uscita improvvida, appunto, per svariati motivi: innanzitutto non c’è ancora un parere unanime sull’effettiva efficacia dell’auto elettrica, che in più casi ha riscontrato problemi di smaltimento della batteria alla sua conclusione; in secondo luogo, l’auto ibrida rappresenta al momento il principale punto di sviluppo dell’automobile – basti pensare che il mondiale rally dal 2022 farà partecipare solo auto ibride, segno che le grandi case prediligono quella strada – e interrompere questi sviluppi in appena 15 anni rischia di essere controproducente anche dal punto di vista ambientale; in terzo luogo, questa sarebbe la definitiva mazzata al comparto automobilistico britannico, visto che i prodotti inglesi fanno parte principalmente del mercato delle auto di lusso, mercato che mal si sposa con una “rivoluzione verde”.
Non si deve però cadere nell’errore opposto, ovvero quello di diventare negazionisti nei confronti del problema o ignorare le richieste di una parte importante della popolazione, in particolare quella più giovane. Per esempio, Trump ha fatto bene – anzi, benissimo – a deviare le accuse di inquinamento rivolte agli Stati Uniti, visto che Cina e India da sole producono il doppio delle emissioni prodotte dai soli States; male ha fatto, invece, a rilasciare dichiarazioni in cui ironizzava sul fenomeno dei mutamenti climatici.
La destra dovrebbe quindi fare suoi alcuni temi ambientali, magari allineandoli alle questioni legate all’impresa e alle identità. Come si possono ridurre le emissioni? Incentivando l’uso di trasporti ferroviari sostenibili ad Alta Velocità che colleghino in poco tempo aree lontane d’Europa. Come si può lavorare sulle energie rinnovabili? Riprendendo, in maniera non ideologizzata, il dibattito sul nucleare e sulle altre fonti di energia ad alto rendimento e bassa spesa. Come si può evitare il “sovrasfruttamento” delle risorse alimentari naturali? Aprendosi a metodi alternativi in campo agricolo, privilegiando l’altissima qualità a ogni latitudine della nostra filiera e proteggendo i prodotti europei – e italiani in particolare – dall’invasione di imitazioni provenienti da altri mercati. La soluzione, insomma, non può essere nuove tasse – come vorrebbero alcuni ambientalisti di sinistra – o la fine delle abitudini umane, come invece predicano alcuni ecologisti radicali. La soluzione deve stare nel prendere accorgimenti che non distruggano il mercato ma che permettano al contempo un miglioramento dello status quo.
Deve fare tutto questo anche la destra italiana? Assolutamente sì, visto che al momento nessun partito si è incaricato di dare una visione “verde”. Il Governo giallorosso nacque proclamando a gran voce un Green New Deal per poi dedicarsi ai monopattini quest’estate; un paradosso incredibile, specie perché il Movimento 5 Stelle “delle origini” nacque parlando proprio di temi ambientali, come l’acqua pubblica, l’ambiente, la connettività, la mobilità sostenibile e lo sviluppo, parole che oggi sono il retroterra culturale di qualsiasi partito verde. Ma non sembra che il Movimento abbia la benché minima intenzione – né la forza necessaria – di cambiare il proprio background comunicativo.
Riccardo Ficara Pigini