Certe volte, in questi tempi strani e immobili, costretto a guardare il parco fuori dalla finestra, mi abbandono all’immaginazione: quell’immaginazione che mi ha sempre infastidito negli altri, oggi me la ritrovo, chissà come, ad accompagnarmi.
E, in particolare, m’immagino la storia: dopo averla studiata e spiegata per decenni, dopo averla sezionata, osservata, catalogata, adesso, quasi per un buffo contrappasso, la vivo. Inevitabilmente, ciò che rivivo è l’esperienza di un me vissuto in epoche crepuscolari, nei residuali magazzini di un grande impero o di una grande epopea: troppi sono i segnali che sfilano nel cielo, troppi gli indizi della fine di una civiltà, per non esserne suggestionati.
Così, come un inutile senatore della tarda antichità, come un filosofo senza lavoro, osservo lo sprofondare di un mondo e, lo confesso, ne sono quasi felice: quasi mi sembra di venire liberato dal peso insostenibile di cantarne la fine.
Impossibile non cogliere la desolante miseria in cui sono precipitati certi rapporti, certe, diciamo così, relazioni, che, un tempo, appartenevano alla suburra e che, oggi, non solo intercorrono tra uomini di potere e di fama, ma, addirittura, vengono sventolati di fronte al pubblico, che ne constata l’inverosimile normalità. Mi stupisco del non stupirsi, m’indigno della mancata indignazione di un popolo, che dovrebbe essere il mio stesso, davanti a certe patenti manifestazioni di miseria etica.
Come, per esempio, accogliere come cosa affatto normale lo scambio di accuse, di contumelie e di battute tra Carlo Calenda e Clemente Mastella: scambio non giunto alle pagine della stampa perché carpito da un buco di serratura, ma pubblicato dagli stessi protagonisti. Come fa una persona che svolge ruoli pubblici a mettere sotto gli occhi degli Italiani la squallida pantomima che si gioca dietro le quinte del potere? Voglio dire: tutti immaginiamo che questa pantomima esista, ma non è pensabile che venga esibita, in una specie di combattimento tra galli.
E uno dei due contendenti vuole diventare sindaco di Roma, l’altro si atteggia a nocchiero della navicella governativa e ad arbitro dei destini nazionali. Sono io che sono ormai del tutto estraneo al mio tempo o c’è qualche spaventosa discrasia tra ciò che è lecito e ciò che è morale? Uno dei due, come se nulla fosse, rivela che il nostro futuro, in un’epoca spaventosamente seria, terribilmente grave, si sta decidendo in un balletto di “do ut des”, di mani che si lavano vicendevolmente, di ammiccamenti levantini.
Mentre la gente soffoca nelle sale rianimazione, la Repubblica gioca a Black Jack. L’altro, come una vipera calpestata dal gitante disattento, si rivolta e, anziché domandare perdono per essersi fatto scoprire in un gioco tanto sporco e poi sparire, finalmente, definitivamente, dalla nostra vista, contrattacca, insulta, descrive il candidato sindaco come una squallida nullità, nota a tutti, meno che, evidentemente, ai suoi futuri elettori.
Fuori, nel parco, c’è una minuscola processione di germani, che, dondolando, si dirigono verso il laghetto: all’orizzonte, strisce violacee promettono nuova neve. Saranno stati così i tramonti ravennati di Simmaco?
Oppure gli ultimi eredi di Roma seppero scomparire con maggiore dignità? Eppure so, cosa pensarono quegli ultimi Quiriti: se deve accadere, che almeno accada in fretta.
Risparmiandoci lo spettacolo miserabile dei peggiori che si contendono il laticlavio.
Marco Cimmino