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Attualità Cultura Un bergamasco in Rendena

Alpini da 149 anni; un futuro incerto ma in piedi, da Alpini!

Cade in questi giorni il nostro centoquarantanovesimo compleanno. Di noi alpini, intendo: siamo anzianetti, anche se, paragonati ad altri reparti europei, siamo poco più che adolescenti.

Comunque sia, sono un bel po’ di anni che ce ne andiamo su e giù per le montagne, da soli o insieme ai nostri amici muli. Naturalmente, la ricorrenza viene celebrata e festeggiata a ogni livello: su “L’Alpino”, sui giornali sezionali e, addirittura, sulla stampa civile. Il ministro Guerini ha perfino deciso di venire sul Doss a visitare il nostro museo: un bel salto in avanti, da quando un suo collega insultò i caduti di El Alamein. Tutto bello, insomma, e tutto buono, in pretto stile alpino. Almeno in apparenza. Perché, tra festeggiamenti, ricchi premi e cotillons, ci si dimentica di un paio di cosette che, forse forse, sarebbe opportuno, invece, ricordare. Specialmente in questi giorni di tripudio, in cui i mezzi di comunicazione si ricordano che esiste anche un’Italia in divisa.

La prima di queste cosette è che, tra un po’ di tempo, che mi auguro lunghissimo, a festeggiare i compleanni degli alpini non ci saranno più alpini: il museo del Doss Trento sarà una specie di mostra paleontologica, piena di reperti fossili di una specie estinta. Gli alpini si sono nutriti e hanno prosperato grazie alla leva obbligatoria: le cante, le barzellette, gli aneddoti alpini nascono dalla nostalgia del paese e della valle, dal nonnismo infragenerazionale, dal legittimo orgoglio del congedato, dalle timidezze della recluta. E, soprattutto, dalla comune origine: dal paìs montagnino.

E’ facile addestrare un esploratore sciatore, se hai a disposizione un plotone di gente che sugli sci ci è nata. Oggi, con l’esercito professionale, gli alpini non esistono praticamente più: fatti salvi i pochi volontari con una forte identità alpina, tutti gli altri sono militari stipendiati, come i Carabinieri. Bravi, operativi, ma non alpini.

La seconda cosetta da dire è che, ad onta della sacra regola dell’ANA, per cui gli alpini devono essere apolitici, nelle loro attività legate all’associazione, oggi i vertici ANA fanno ampiamente politica. Anzi, politiche: due. La prima è quella di veicolare, attraverso gli organi associativi, una specie di buonismo catto-alpino, che tende sempre più a rappresentarci come un’attività filantropica, piuttosto che come un’associazione di ex militari. La seconda è quella autoconservativa: ovvero di mantenersi sedie e poltrone, con una sapiente strategia. E questo, va da sé, non va mica bene: specialmente tra chi si riempie la bocca di valori come “l’alpinità”.

Infine, terza cosetta che devo proprio scrivere, per rovinare la festa, gli alpini mi sembrano decisamente rammolliti: vanno ai pellegrinaggi in Adamello in elicottero, girano vestiti con l’abito buono, stringono mani e indossano scarpette da passeggio. I nostri nonni andavano alle adunate coi “Vibram” e al Carè Alto ci salivano di corsa.

Insomma, festeggiamo, celebriamo, brindiamo, facciamo cin-cin, come recita la più brutta delle nostre cante, ma non dimentichiamoci chi siamo e, soprattutto, chi eravamo.

La leva non tornerà, bisogna che ci rassegniamo: ma, se si deve morire, almeno facciamolo in piedi. Da alpini.

Marco Cimmino