Da qualche mese la politica italiana sembra aver cambiato rotta con un premier donna e di destra, la grintosa Giorgia Meloni.
Impermeabile, almeno in apparenza, alle critiche feroci di una sinistra spiazzata dalla sua elezione – che peraltro non ha fatto nulla per contrastare – l’ex finiana ha inaugurato un metodo comunicativo fatto di determinazione anche dal punto di vista lessicale: niente preziosismi intellettualoidi, dritta al punto, pur se tirata per la giacchetta e con poco spazio di manovra. Anche il look segna una svolta: stop al tacco dodici da donne berlusconiane, semplicità e sguardo diretto degli occhioni azzurri.
Il primo sgambetto le arriva il giorno delle dichiarazioni di voto al nuovo governo: la neonominata presidente viene contestata poiché avrebbe replicato con il “tu”, anziché con il “lei”, al parlamentare di Europa Verde Aboubacar Soumahoro, di origini ivoriane, e dovrà scusarsi.
Il quarantenne italo africano ha percorso a grandi passi il cammino verso l’elezione, spiccando il volo da sindacalista dei braccianti agricoli del foggiano, provenienti dal continente nero. Laureato in sociologia all’ateneo di Napoli, con una tesi sui temi sociali a lui cari (fonte Wikipedia), egli accetta una candidatura ecologista ed esordisce arrivando in parlamento con ai piedi stivaloni da contadino sul completo giacca e cravatta; nel suo discorso non scorderà il tema dei diritti civili, accingendosi a una volitiva opposizione.
Purtroppo, passa poco tempo ed esplode uno scandalo sul conto di Liliane Murekate sua moglie – o compagna a seconda dei resoconti – e della di lei madre Marie Therese Mukamitsindo, per la gestione della cooperativa Karibu, con accuse di presunte distrazioni di fondi e malversazioni.
Il disappunto del gruppo familiare è stato accresciuto dal pesante sarcasmo riguardo l’abbigliamento di Liliane, secondo i maligni simile a quello di Rihanna più che di una passionaria che lotta a fianco del marito.
I preconcetti sono duri a morire, come si duole Aboub (detto in breve), ricordando che ognuno è libero di vestirsi come crede, dapprima spalleggiato dall’intellighenzia della sua parte politica.
La solidarietà però è durata poco, se è vero che il suo schieramento si è presto intiepidito, per non dire raggelato, man mano che trascorreva il tempo e le inchieste sull’operato delle parenti si facevano incalzanti.
Souamahoro all’alba dell’anno nuovo abbandona i suoi vecchi compagni e si alloca nel gruppo misto, non senza parole amare rilasciate ai media:
“Ho subito un linciaggio mediatico”: lo ha affermato il deputato Aboubakar Soumahoro, commentando le accuse che gli sono state mosse dopo lo scandalo sulle coop che ha visto finire sotto inchiesta la suocera e la compagna”.
“E’ un processo a reti unificate con un dolore e una sofferenza che non auguro a nessuno in questa vita – ha precisato -. In questo Paese pesa molto essere neri. Rende tutto molto più complicato e non lo scopriamo oggi”. TGCOM24 . 11 gennaio 2023
Nell’era virtuale le notizie girano prima del pensiero, e più che mai è valido il detto secondo cui la menzogna fa il giro del mondo mentre la verità si allaccia le scarpe; pertanto si attenda l’esito delle indagini e non si presti troppo orecchio a malevolenze o uscite improvvide dettate dalle emozioni.
Tuttavia è possibile e lecita, finalmente diremmo, una prima analisi disincantata di fenomeni sui quali, fino a poco tempo fa, esisteva un veto psicologico che oggi accenna a cadere.
La “nostra” Africa appartiene ai ricordi, ai testi scolastici quando, studenti universitari, credevamo nelle magnifiche sorti progressive: una generazione che ormai non viene più ascoltata dalle nuove leve, tra le quali si contano, pur provenendo da contesti assai distanti, sia Giorgia (classe 1977) che Aboubacar ( nato nel 1980).
Dobbiamo dunque rassegnarci al nostro ruolo di testimoni del tempo e portatori di un’eredità culturale ben poco riconosciuta, vox clamantis in deserto? Per il momento non alziamo ancora bandiera bianca e, ostinati, vogliamo dire la nostra.
L’approccio intellettuale ai temi africani, che ci appartiene, ha mostrato tutta la sua inadeguatezza all’atto pratico, quando si affacciarono al vecchio continente le prime ondate migratorie.
Se alcuni paesi, come la Francia, per ragioni storiche avevano dimestichezza con la cultura dei nuovi arrivati, l’Italia si ritrovò più impreparata. Stretti tra incudine e martello, i cittadini dello stivale si distribuirono sostanzialmente tra due schieramenti, i favorevoli tout court e i perplessi, per usare un eufemismo.
Di fatto le posizioni erano più sfumate, tra una destra sociale benevolente e una quota di ex comunisti non troppo aperti alle novità. L’avvicendarsi fisiologico dei componenti della cittadinanza ha dissolto, quasi liquefatto, le vecchie obiezioni, così come l’oltranzismo di stampo leghista: il potere ammorbidisce, ci sono nuove realtà da accettare.
Così fu che divenne ministro la congolese naturalizzata Cécil Kyenge, mentre si installava tra i banchi padani il deputato nigerian/lombardo Tony Iwobi, e si insediavano in giro politici “oriundi” come la italoafroamericana Sandy Cane, eletta sindaco di Viggiù nel 2009 tra le fila della Lega, nuovamente; origini afroamericane vanta il velocista ventottenne Marcell Jacobs, che gareggia con il tricolore.
Lungo sarebbe l’elenco dei nomi famosi con la pelle più scura della vecchia media italica; le rivendicazioni “razziali” – temiamo ma osiamo scrivere in certi termini – non sembravano più all’ordine del giorno, fino all’avvento dell’”affaire” di “Lady Souma”.
L’esperienza insegna che non bisogna mai abbassare la guardia dinanzi a questioni epocali in apparenza sopite, pronte a rinfocolarsi periodicamente, come fuochi sotto la cenere; ma fino a che punto a riaccenderle contribuiscono le stesse persone che ne fanno poi le spese? In altre parole l’occidente, e l’Italia nella sua grande pancia, sono esenti da torpide strumentalizzazioni che giovano più alle poltrone che all’equità?
Soumahoro ha ragione allorché parla di africani accettati solo quando si comportano da bravi “neri da cortile”, tuttavia si dovrebbero individuare le responsabilità, oltre i discorsi sulla difensiva.
La scarsa mobilità sociale è un vecchio problema italiano, le cui cause lasciamo studiare a sociologi ed esperti a vario titolo, e rappresenta un limite che si impatta inevitabilmente all’approdo nella penisola: magari sbarcando dai gommoni, dopo un viaggio estremo, costellato di malori e morti, attesi dai volontari strutturali pronti all’accoglienza, ma rigidi quando si tratta di mettersi a un tavolo per concordare sul rapporto causa/ effetto.
Negli anni abbiamo ascoltato molte voci, per le quali rimandiamo al libro “Terra d’Ombra”, di Carmen Gueye, di prossima riedizione. Il fascino dell’esotico è ampiamente condiviso e celebrato nelle opere letterarie, tanto da indurci a una riflessione profonda sull’influenza di capolavori come “Cuore di Tenebra”, di Joseph Conrad, che descrive un Africa nera non solo per definizione, fosca di riti tribali di oscura attrazione. La lettura è emozionante, ma riporta a pregiudizi duri a morire.
D’altro canto anche opere del terzo millennio come il libro “Sortilegi”(ed Bollati Borlinghieri, 2008) scritto a quattro mani da Enzo Barnabà con il famoso economista francese Serge Latouche, propugnatore della “decrescita felice”, ci restituisce vecchi episodi dimenticati e controversi, come il massacro di Kindu, nel 1961: terminato, secondo quanto si legge, con la vendita al mercato delle carni dei nostri soldati uccisi durante una missione ONU in Katanga (cfr pag 160).
Un altro libro rimette in gioco il problema della lebbra. Si tratta di “Il mio nome è Regina”, ed. Sonzogno 2010, della italo/burkinabé Marie Reine Toe, prematuramente scomparsa nel 2015. L’autrice, figlia di un diplomatico dell’ex Alto Volta poi Burkina Faso, ci racconta del danno sociale oltreché sanitario di una malattia, ora conosciuta come “morbo di Hansen” che flagellerebbe proprio l’Africa, mentre in rete si legge che quel continente sarebbe il meno colpito. La scrittrice e attrice contribuì, senz’altro inconsapevolmente, a diffondere un luogo comune. Tuttavia le saremo sempre grati per averci trasmesso una versione alternativa sulla rivoluzione di Thomas Sankara del1983, sfociata in sangue e delusione per quel paese: svelando che i primi ad accorrere dopo il colpo di stato dell’utopico leader, ucciso pochi anni dopo da una congiura di soggetti, fu una ONG canadese: già pronti, sempre sul pezzo, mai risolutivi.
Possiamo ricordare la bibbia degli filoafricani storici, “Ebano”, di Ryszard Kapuscinski , che fissò per decenni l’icona di una landa in balia di forze centrifughe e tiranni feroci; o, per restare in tema più frivolo, il grande successo internazionale de “ La masai bianca”, scritto dalla svizzera Corinne Hofmann, da cui fu tratto anche un film. Corinne ci narra, con stile disinvolto e informale, della sua vacanza anni ottanta in Kenya con il fidanzato connazionale, piantato in asso per rincorrere un fascinoso ragazzo di etnia samburu, da cui avrà una figlia ma dovrà anche fuggire, per le peripezie sentimental/sociali.
Potremmo continuare sul tema “La mia Africa”, titolo rimasto nel nostro cuore per la mega produzione hollywoodiana strappalacrime; o “ Sognavo l’Africa”, dell’italiana altoborghese Kuky Gallmann (film poi interpretato da Kim Basinger), rapita da un sogno kenyota non alla portata di tutti: e così per molte altre narrazioni fascinose, oniriche e poco aderenti al rapporto con la conoscenza della vita reale da quelle parti, mediata dai pochi che vi potevano vivere o lavorare.
Rivedere le usate narrazioni con lente critica non costituisce esercizio estetizzante e consolatorio, ma comporta mettere i piedi nel piatto e sporcarsi le mani con argomenti scomodi, primo tra i quali il reale desiderio di emergere delle classi sociali “ultime”, in primis quelle degli immigrati di primo arrivo: attenzione, non di seconda generazione, ma di coloro che hanno toccato il suolo dello stivale anche fino a pochi giorni fa, benché giovani o giovanissimi (le seconde o terze generazioni comportano un discorso a parte).
Li abbiamo conosciuti, ci siamo confrontati, cavandone un senso di smarrimento. Spinti dalla pressione familiare, gravati dall’obbligo di restituire quanto è stato investito per la lor partenza, e dal dovere morale di ricambiare a vita il privilegio di vivere nel nord del mondo, infine molti di loro si ritrovano stanziati in una perenne condizione di cittadini di serie B, fino a convincersi che esista un potere profondo che li odia e li sfrutta; e uno “buono” che li accetta ma, in sostanza, non permette loro di muoversi da dove si trovano e stallano.
Per questi immigrati “di ruolo” spostarsi dalla fascia sociale dove si trovano implicherebbe la necessità di nuotare nel mare della vita di quelli come noi: di chi, come chi ci è nato e vissuto, lotta con le burocrazie e si dibatte tra annosi problemi e i colpi ai fianchi di istituzioni ormai più nemiche che amiche. Ecco che mimetizzarsi in un limbo senza troppi diritti, ma nemmeno doveri, sembra la cosa più giusta o il meno peggio.
In contrasto con un certo credo, a suo dire mainstream, si è sempre posto Paolo Diop, nato in Senegal nel 1988: giunto in Italia neonato, all’inizio simpatizzante di Casa Pound, poi transitato in Fratelli d’Italia, ne è stato espulso un paio di anni fa per contrasti interni
“ Paolo Diop è stato soltanto una meteora? Quella dell’africano convintamente di destra che nega l’esistenza del razzismo (anzi, che attribuisce il fenomeno alla sinistra) è una favola servita soltanto a ripulire l’immagine della destra sovranista o la sua ascesa è frutto di talento politico puro? E poi cosa è successo? Diop è stato fermato dalla sete di potere dei signori locali delle preferenze o, più banalmente, una figura come la sua non serve più perché tanto ormai l’assalto alla diligenza è finito e il potere è ormai conquistato? In tempo di pace, vera o presunta, servono ancora gli eroi di guerra?” Glistatigenerali.com 20 gennaio 2021
Il ginepraio appare inestricabile, tra parole proibite in nome del politically correct e situazioni tenute sotto traccia per tema che esplodano in mano, durante una qualsiasi delle nostre numerose e frequenti campagne elettorali. Nel frattempo si ingaggiano i nuovi poveri importati, da affiancare a quelli nostrani, in un abbraccio fraterno a basso costo, utile per manifestazioni e cortei dove tutti sono d’accordo sugli slogan dogmatici come quelli ambientalisti; con portavoce giovani e ambrati che magari parlano di pannelli solari infischiandosi bellamente del costo in vite e salute che la nostra cattiva coscienza tacita: e poi tutti insieme si viaggia verso la festa multicolore, con l’ultimo I phone, in attesa di una candidatura.
Noi invece crediamo in un’Africa nuova, realmente libera e non per slogan. Attualmente Mali e Burkina Faso, nel disinteresse generale causato dall’attrazione ucrainica, stanno lottando contro il perdurante dominio francese, sostenuti da forze alternative alla NATO, che si oppongono alle mefitiche agende globali che stanno avvelenando il mondo. Seguiamo e speriamo.
Carmen Gueye
Djigo Babo Amos (ivoriano in Italia dal 1993, ha seguito per anni le politiche del suo paese partecipando attivamente alle vicende che ne hanno determinato l’attuale situazione)