Oggi Whitney Houston compirebbe sessant’anni.
Il mondo dello spettacolo ha sfornato misteri a volontà. Nell’ area “black” ricordiamo Sam Cooke, freddato nel 1964 da una donna per presunte molestie; Otis Redding, caduto con l’aereo nel 1967, senza che siano mai state investigate le cause del sinistro; Marvin Gaye nel 1984 ucciso dal padre aspirante trans, in un contesto rimasto oscuro.
I fantasiosi sostengono che la stella emergente del R&B, Aaliyah, sarebbe morta, nel 2001, appena ventiduenne, per un complotto ordito da Behoncé, gelosa del suo successo. In realtà Aaliyah e la sua troupe si imbarcarono in sovrannumero, caricando oltremodo il piccolo velivolo abilitato a sopportare un peso assai inferiore, condotto da un pilota sospetto cocainomane: e finirono in mare.
Veniamo a Whitney. Nata nel New Jersey, figlia di una cantante di gospel e imparentata con Dionne Warwick, la bambina fu presto esibita nelle messe domenicali, mostrando sia una splendida voce, che un faccino delizioso. Adorava il padre, obbediva alla madre, credeva in Dio, ma a dieci anni iniziò a drogarsi con i suoi fratelli (niente sorelle) e covava dei complessi, per esempio quello degli scarsi capelli.
Oggi potremmo definirla la Callas del pop; all’epoca, però, in un certo ambiente veniva considerata una snob, che rinnegava l’ambiente di provenienza e non si dedicava ai suoi generi classici. Volenterosa, negli anni cercò di irrobustire le sue interpretazioni con qualche dose di “negritudine”, ma non rimane famosa per questo.
Il film “Bodyguard” ne fece una superstar, ma la sua vera guardia del corpo ci racconta che, nel tentativo di salvarla, chiese al management di fare qualcosa per l’uso smodato di sostanze che le stava rovinando la voce e contagiando perfino la figlioletta; per questo l’uomo fu licenziato in tronco, dopo anni di dedizione.
La sua vita sentimentale è in chiaroscuro. Per lanciarla, fu dipinta come una soidisant verginella di cristiane virtù; di converso tutti sapevano che la sua assistente, Robin Crawford, non la mollava mai. Nel 1992, ormai star, Houston sposò il rapper Bobby Brown, di sei anni più giovane, da lei voluto ostinatamente contro tutti, già padre di sparsa figliolanza.
Whitney sembrava adorarlo e tenne duro fino al 2007, quando se ne separò, anche se pare non sia mai intervenuto un formale divorzio; ma era stato difficile allontanare Robin, infine congedata con una lauta buonuscita e dopo anni di contrasti con Bobby, che avevano logorato l’unione.
Whitney era apparsa poco serena anche dopo la difficile maternità, che l’aveva lasciata sfatta ed esaurita alla nascita dell’unica figlia, Bobby Kristina, nel 1993.
La ragazza, un po’ schiacciata dalla personalità materna, in seguito mostrò a sua volta un talento canoro e sembrava decisa a seguirne le orme.
Whitney non pareva ricevere supporto e incoraggiamento dalla madre, donna durissima, che contestava ogni sua scelta, né dal padre che, nel 2006, le intentò una causa legale per spillarle denaro. Obbligata a mantenere l’alto standard tra disordini privati e i pusher alla porta, cedette, iniziò a mancare gli impegni presi, faticava a finire i concerti; infine, si prestò a un tour, nel 2010, offrendo il pietoso spettacolo di una voce roca e versi saltati.
Alcuni indicano come principale creditore il producer Clive Davis. Pare che l’apparato le avesse affiancato un controllore, chiamato “insider”.
Da inizio millennio, nonostante la consueta classe riversata nell’ultimo album “I look to you”, la star non aggiunse nulla di rimarchevole alla sua arte, spesa senza profusione nei decenni precedenti e sfigurata dalle intemperanze che la angustiavano.
Nel 2006 la cognata, moglie di un fratello, la espose al pubblico ludibrio, parlando di lei come di una tossica sudicia ed erotomane. Si scatenò un inferno di chiacchiere, alla vista di copertine con parrucchini e dentiere, fotografie della Houston appena alzata e tavoli con boccette e siringhe, in una cittadina della Georgia dove si era rifugiata.
L’11 febbraio 2012 Whitney era attesa a una cena al Beverly Hilton Hotel in previsione della cerimonia per l’assegnazione dei Grammy, che l’aveva vista tante volte vincitrice, ma non si presentò. Fu ritrovata nella vasca da bagno della sua camera.
La Houston era affiancata da sorta di compagno ufficiale, Ray J, nato nel 1981, professione cantante e attore, per molti in realtà suo “fornitore” personale, ma l’allarme sarebbe partito da Bobby Brown, dunque sempre presente nella vita della diva. A quanto dicono, si scoprì subito che era morta, ma si preferì terminare la cena prima di farla portare via: se così fosse, ci si scandalizzerebbe per il cinismo, ma l’universo divistico è notoriamente roba per stomaci forti.
Bobby Kri ha fatto la stessa identica fine dell’adorata mamma, tre anni dopo, overdose nella vasca da bagno con ipossia irreversibile: ritagliandosi, come differenza, solo qualche mese di coma. Su questa morte il mistero esiste davvero e si indica, quale responsabile, il fidanzato Nick Gordon. Costui era stato informalmente adottato da Whitney, come a voler dare un fratello alla figlia, ma ne approfittò invece per sedurre la ragazzina e, dicono, maltrattarla e riempirla di stupefacenti fino a portarla alla morte.
Nel 2017, grazie al documentario “Can I be me”, sono emerse circostanze inedite. Bobby Brown, dipinto sempre da una certa stampa mainstream come un bruto, risulta una vittima del tritacarne. E’ intervenuta la sanguigna Leolah, sorella di Bobby, a ridare colore a questi foschi ricordi. La donna ha mostrato foto e filmini della coppia felice, che certamente si è amata; e dichiara che solo la famiglia acquisita Brown aveva rispettato la celebre parente.
Leolah ci lascia con il botto: al Beverly Hilton quella notte le cose non andarono come è stato detto. Sotto accusa è il clan Houston, con un certo contesto tossico intorno a Whitney. Si fa notare che al venticinquesimo compleanno di Bobby Kri sarebbe scattato per lei un cospicuo vitalizio, non si sa poi in che mani caduto.
Nel frattempo sono morti anche Nick Gordon e un figlio di Bobby Brown, ufficialmente per malori dovuti alla tossicodipendenza.
I nostri ricordi di un’epopea black music carica di pathos e artisti stellari vibranti di emozioni risultano oscurati. La decadenza dei generi fa rimpiangere gospel e spiritual ispirati da un antico dolore: che però salvava valori profondi, svenduti al business.
Carmen Gueye