Più che un’opinione è un ricordo d’antan: le «macchine da scrivere». Si! Proprio le macchine da scrivere. Quegli “attrezzi” ormai passati in disuso causa i computers. Ne ho avute diverse, ma quelle che più ricordo sono tre: una Olivetti 32 color verdino chiaro con una custodia nera, in finta pelle proprio orrenda; un’altra Olivetti 35 color grigio topo, questa con una custodia rigida, nera e la prima di tutte: una Corona, un pezzo di antiquariato degli anni 40, tenuta da mia madre Silvana come nuova (la Corona era la stessa che usava Ernest Hemingway, per capirci; insomma: una bellezza di macchina da scrivere).
La Olivetti 32 l’ebbi durante la detenzione nel carcere di Ferrara, dal 1980 al 1984. Per poterla avere, quando m’iscrissi come privatista per ottenere il diploma di scuola magistrale, dovetti fare una “domandina” (in carcere per poter tenere in cella qualcosa che già non sia previsto dall’Ordinamento Penitenziario bisogna ottenere l’autorizzazione dal Direttore e, naturalmente, una volta ottenuta questa “autorizzazione” devi anche avere i soldi per acquistarla). Condizione sine qua non: non utilizzarla nelle ore notturne. Il battere sui tasti avrebbe disturbato gli altri detenuti, atteso che il ticchettio rimbombava nel corridoio della sezione speciale. Con questa macchina da scrivere, oltre che scriverci miei documenti di studio è servita anche per “istanze” destinate ai vari magistrati che mi accusavano di reati come “sovversione dell’ordinamento democratico dello Stato”, “ricostituzione del disciolto partito fascista”, “partecipazione a banda armata” e per “memorie difensive” destinate ai vari presidenti di Tribunale e Corte di Assise. Chissà quale fine avranno fatto tutte queste “memorie”?
La Corona, fu invece la mia “prima” macchina da scrivere. Non ricordo il motivo per la quale si trovasse in casa della mia famiglia.
Ma non era la prima volta che vedevo un “monumento” di tal genere; un’altra simile l’avevo già “adocchiata” nella redazione de “il Telegrafo” (quel quotidiano che oggi si chiama “Il Tirreno”) alla redazione di Lucca, in piazza Napoleone sopra il Caffè Ninci. Mio padre, Aurelio, conosceva un giornalista e gli chiese se potesse insegnarmi “a fare il giornalista” …così per qualche tempo divenni il “piccino” della redazione. Non che scrivessi articoli… ma ero lì, nella loro redazione: due stanze, una con tre scrivanie ed una finestra-balconcino che dava su piazza Napoleone e da dove entrava il profumo del sottostante caffè; l’altra, quella del “direttore”, con la sua scrivania e dietro una finestra che dava in via Vittorio Veneto. Avevo circa 11-12 anni. Poi mi annoiai… perché ero il “piccino”.
Invece cominciai a battere i tasti della Corona con il mio dito indice destro, lo stesso che utilizzo ancor oggi per scrivere sulla tastiera di questo pc, scrivendo i testi dei volanti sulle matrici per il ciclostile. Era la fine del 1973. Prima si decideva il testo in sede, in Via dell’Angelo Custode a Lucca, e poi si scriveva a macchina e, infine, si inseriva nel rullo la “matrice” per riscrivercelo (la matrice è costituita da un foglio di carta di riso molto sottile ricoperto da uno strato di cera; per incidere la matrice si utilizza principalmente le lettere della macchina da scrivere, la quale “distrugge” il foglio cerato laddove sono stati picchiettati i martelletti; in questo modo si permette il passaggio dell’inchiostro, molto denso, solo nelle zone prive di cera) e stampare i volantini al “ciclostile” (il “nonno” della moderna stampante Xerox, un macchinario diffusissimo fino agli anni ’70 del Novecento, per la stampa di documenti e utilizzato trasversalmente in uffici pubblici, scuole, parrocchie e naturalmente dai partiti e movimenti politici; l’autoproduzione rispondeva a forti esigenze di autonomia espressiva da parte dei realizzatori, liberi dai condizionamenti editoriali, si proponevano come alternativa ai mezzi di comunicazione tradizionali; queste esperienze hanno interpretato al meglio lo spirito alternativo di una cultura giovanile dirompente, soprattutto nel periodo 1968-1980: il ciclostile ha avuto un ruolo fondamentale per la controinformazione culturale che permise di rompere il muro di propaganda di regime che si serviva della comunicazione di massa dell’epoca, per veicolare massicciamente messaggi e ideologie; alla fine degli anni ’60 e ’70 gli studenti fecero di questo mezzo di stampa uno strumento di lotta e di propaganda, capace di interpretare al meglio i sentimenti e le idee di cambiamento presenti nei movimenti di lotta, nei collettivi, nelle associazioni, nei partiti e nei sindacati: partecipazione dal basso, ribaltamento dei ruoli decisionali, antiautoritarismo, lotta antisistema, queste erano le parole d’ordine dei contestatori che trovarono nel ciclostile lo strumento capace di esprimerle al meglio).
La Corona venne sequestrata dai Carabinieri durante una di quelle tante perquisizioni subite (all’epoca almeno una volta al mese Carabinieri o Polizia Politica della Questura – così si chiamava all’epoca l’attuale Digos – si presentavano di buon mattino all’abitazione dei miei familiari in Via Pescheria n.2: “Buongiorno, perquisizione” e poi se ne andavano via con “carte, giornali e fogli scritti a mano”). Non è mai stata restituita. Un giorno, dopo circa un anno, mia madre ch’era stata “convocata” negli uffici dei Carabinieri presso la Procura della Repubblica, per firmare l’elenco dei documenti sequestrati in occasione della perquisizione di quella mattina, la vide su una scrivania e ne chiese la “restituzione” … la risposta fu “non si può signora, è sotto sequestro” … sotto sequestro e la utilizzavano loro… non è mai stata più restituita e non è mai stata neanche un “corpo di reato”. Mia madre ha sempre detto “ce l’hanno rubata”.
La Olivetti 35 invece la tenevo io, a casa, ma non era mia. Venne acquistata coi soldi della “cassa” del movimento. La “cassa” era in realtà un militante che teneva la tesoreria del movimento e alla attingevamo per acquistare inchiostro e fogli per il ciclostile e altro materiale necessario alle manifestazioni e per pagare anche l’affitto della sede. I soldi provenivano da raccolte e contributi volontari e anche da vendite di libri. L’ho tenuta e l’ho utilizzata per scriverci volantini, matrici, documenti del movimento lucchese ma anche cose private, riflessioni… fino al 24 gennaio 1975… giorno in cui cominciò la mia vita da “latitante” o “ricercato” o militante clandestino per non abbandonare un “amico” (allora) al suo destino.
Marco Affatigato