Mariangela Melato, Lina Wertmuller, Giancarlo Giannini: chi può mettere in dubbio il talento di questi artisti e, messi insieme, il loro valore esponenziale in Travolti da un insolito destino?
Nessuno; e infatti noi li veneriamo dopo tanto, tanto tempo, da sembrare maggiore dei cinquant’anni che questa pellicola ha compiuto lo scorso dicembre, nell’anniversario dell’uscita.
Le critiche e le analisi hanno scomodato psicanalisi e sociologia, politica e ideologia, in un balletto vertiginoso che potrebbe anche essere semplificato col semplice ricorso alla definizione di commedia romantica: che altre ne ha ispirate, all’estero, compreso un modesto remake con il figlio di Giancarlo, Adriano, e Madonna.
La trama è nota: una ricca sciura milanese, Raffaella Pavoni Lanzetti, saccente e classista, radical chic con pretese culturali, imbarcata sul suo yacht col marito e coppie amiche (e un sindacalista di sinistra), tratta malamente l’equipaggio, di cui fa parte il siculo riottoso e ipercomunista Gennarino Carunchio, che male incassa l’atteggiamento della donna, oltremodo capricciosa. L’uomo sarà costretto ad accompagnarla in una gita quasi serale in gommone, ma un problema al natante costringerà entrambi a riparare su di un isolotto, che vedrà il capovolgimento dei ruoli e l’esplodere di una passione tra i due. Quando un salvifico panfilo si profilerà all’orizzonte, Carunchio, contro il parere di lei, deciderà di attirarne l’attenzione, volendo fortemente la conferma dell’amore di lei, una volta tornati alla realtà; ma a Raffaella mancherà il coraggio di ”mollare tutto”.
Si trattava del classico film che, dopo l’ultimo fotogramma, scatenava i commenti degli spettatori sul possibile “dopo”: chi cinicamente escludeva un ritorno di fiamma, chi (soprattutto donne) credeva nel miracolo amoroso in un secondo tempo.
Ciò che colpisce, a distanza, è la somma di politicamente scorretto che impedirebbe, oggi, la ripetizione di una simile sceneggiatura e ne provocherebbe la messa all’indice da parte dei moderni inquisitori.
Gennarino infatti piega la volontà della compagna a suon di sberle, in un gioco sottilmente sadomaso che oggi, non riconosciuto come un diritto interno alla coppia, verrebbe bollato quale sindrome patriarcale aborigena e anticamera di femminicidio di marchio tribale.
Per quanto si siano spese molte parole per descrivere l’intenzione della Wertmuller, donna di polso, troppo determinata e leader per essere intruppata in un ambito di banale femminismo, in verità tra i due protagonisti si sviluppa un’osmosi, che scolora i rispettivi fanatismi: emotivamente, a vincere sarà lei, che trasformerà la protervia primordiale dell’uomo in consapevolezza di quanto l’orgoglio proletario rifletta, e nasconda, il desiderio di proiezione dei propri desideri repressi nella upper class, considerata viziosa per pregiudizio: la gente “bene” è poi così diversa dal popolo che vorrebbe, ma non può?
La perdita dei ruoli tra i due sessi, ormai aizzati l’un contro l’altro dalla ben fomentata sex war, ha cagionato anche lo svanimento della memoria di quegli anni felici, in cui si imparava a conoscersi nella scoperta della libertà dei costumi sessuali, con molte illusioni, è vero: ma l’illusione è parte della vita.
Oggi il maschio represso e corteggiato dai mondi colorati non è in grado di sostenere un contraddittorio e spesso si rifugia in visioni lisergiche e ipersessuate, colme di sogni da consumare in fretta, come Onlyfans, e assiste ai pride dove le mistress con frustino sono presaghe di promesse di approvata violenza, di crudeltà organizzata e infelicità assicurata, perché il suo contrario, la felicità, è sbandierata come condizione permanente e di diritto: quando invece si tratta di attimi magici da guadagnarsi giorno per giorno, nella lotta quotidiana con e contro se stessi, ma soprattutto con l’altro, diverso da sé.
Carmen Gueye