Si sente spesso parlare di Unione Europa, specie in queste giornate convulse tra indipendentismi e populismi in fase di avanzamento. Se la sinistra punta i riflettori sul lato “democratico” ed “umanitario” dell’Unione, la destra è rimasta – vuoi per una ignoranza di fondo, vuoi per ottenere facili consensi – ancorata sui temi del no: no euro, no immigrazione, no UE. Ancora nessuno ha invece detto quanto vitale sarebbe una seconda Rivoluzione Conservatrice.
Con Rivoluzione Conservatrice si intende l’insieme dei movimenti che durante il primo dopoguerra non si riconoscevano nel parlamentarismo della Repubblica di Weimar, o quantomeno non nella sinistra di quella repubblica.
Il loro ideale infatti, spinto dalla disgregazione post-bellica delle identità nazionali, verteva su tre punti principali: il prussianesimo, il pangermanesimo e la volksich. Termini a molti sconosciuti ma facilmente riassumibili: un ritorno a un unico stato germanico che riassumesse tutti i popoli con una storia comune sotto la guida di una nobiltà retta da un Kaiser, riprendendo appunto la Prussia oppure la Germania così come venne unificata da Otto von Bismarck.
Molti storici e critici hanno voluto vedere nella Rivoluzione Conservatrice il terreno fertile da cui poi è proliferato il nazismo, dimenticando però che questo – pur seguendo il pangermanesimo e la volksich – emanò una forma di prussianesimo autonoma, con la nobiltà di sangue sostituita da una “nobiltà” puramente militare.
Non solo, la maggior parte degli esponenti della Konservative Revolution rigettò le idee di Adolf Hitler, divenendo anche oppositori di esso come nel caso di Thomas Mann. Membro della “pericolosa” rivoluzione culturale, il Premio Nobel 1929 per la letteratura scrisse diversi passaggi decisamente interessanti.
Mai perfettamente allineato alla concezione democratica, Mann scrisse nel saggio Federico e la grande coalizione: “Federico creò una varietà di dispotismo: era il despota illuminato, in quanto i suoi sudditi potevano pensare e dire ciò che volevano, purché lui, da parte sua, potesse fare ciò che voleva…Le religioni non avevano importanza, dato che le disprezzava...non temeva lo spirito perché, finché esso era innocuo, sapeva trovare un giusto equilibrio fra amore e disprezzo. Quando sentì parlare di un suddito tendenzialmente critico, chiese: «Ha centomila uomini? Se no, cosa volete che me ne preoccupi»“. Una rappresentazione perfetta del Kaiser ricercato dai Conservatori e mai più lontano da quello che fu Hitler.
Ma Mann non fu l’unico a schierarsi apertamente contro Hitler. Anche Oswald Spengler disse che la nomina di Hitler a cancelliere “Non fu una vittoria, perché mancarono i nemici“, definendo tra l’altro il leader nazista “Un tenore melodrammatico, non un eroe“. Spengler è ricordato soprattutto per la sua opera Il tramonto dell’Occidente.
In quest’opera, Spengler descrive pienamente con quale sguardo critico, ancora oggi, si dovrebbe osservare la civiltà: “Ogni civiltà sta in un rapporto profondamente simbolico e quasi mistico con l’esteso…Una volta che lo scopo è raggiunto e che l’idea è esteriormente realizzata nella pienezza di tutte le sue interne possibilità, la civiltà d’un tratto s’irrigidisce, muore, il suo sangue scorre vie, le sue forze sono spezzate, essa diviene civilizzazione…Questo è il senso di ogni tramonto nella storia, il senso del compimento interno ed esterno, dell’esaurimento che attende ogni civiltà vivente. Di tali tramonti, quello dai tratti più distinti, il «tramonto del mondo antico», lo abbiamo dinanzi agli occhi, mentre già oggi cominciamo a sentire in noi e intorno a noi i primi sintomi di un fenomeno del tutto simile quanto a decorso e a durata, il quale si manifesterà nei primi secoli del prossimo millennio, il «tramonto dell’Occidente».
Come si può smentire questo pensiero? Semplice: non si può. Perché è quello che viviamo oggi, come Spengler aveva saggiamente previsto. L’Occidente si sente ormai pienamente realizzato e questo atteggiamento di progressivo lassismo non farà altro che favorire questo tramonto, incentivando l’alba di nuove civiltà. Che potrebbe essere quella dell’estremo oriente come quella mediorientale, entrambe pericolose ma in modi diversi.
Nel computo dei “rivoluzionari conservatori” vanno citati anche Ernst Junger e Martin Heidegger. Il primo, noto filosofo tedesco, scrisse pensieri come “Là dove la macchina fa la sua apparizione, la lotta dell’uomo contro di essa appare senza speranza” o “L’uomo che a poco a poco si apre alla banalità si arrende come una fortezza in cui, una volta incrinate le fondamenta, non si troveranno più né forza né mistero“.
Come non vedere nella fusione di questi due estratti la tremenda e vivida attualità del mondo tecnologico? Con persone completamente schiave e succubi del progresso tecnologico, ben lontano da quel futurismo che divenne arte e letteratura. Il futurismo si interessò alla tecnologia, esaltandola ed elogiandola. L’atteggiamento odierno è piuttosto quello di una mera accettazione della tecnologia, incisa a fuoco nella società dalla perifrasi “Oggi si fa così“.
Per tornare al tema dell’articolo, ecco perché una Nuova Rivoluzione Conservatrice sarebbe ben più che auspicabile. Immaginiamo non solo una nazione, ma anche la stessa Unione Europea guidata da questi principi. Immaginiamo un’Unione Europea che ponga alla sua stessa base non una moneta unica che unica non è, non un Parlamento che rispecchia esclusivamente giochi di potere per i quali i 2-3 Stati maggiori possono decidere le sorti di tutti gli altri.
Immaginiamo un’Unione Europea che ponga alla sua base la sua storia, il suo patrimonio culturale, il suo legame intrinseco coi destini del mondo. Un’Unione Europea che non abbia più un nome simile a un pianto da neonato ma riprenda ciò che è sempre stata: Europa. Un’Unione Europea che metta nelle mani di un adolescente non uno smartphone con il roaming europeo, ma una copia della Divina Commedia, del Don Chisciotte, di uno scritto di filosofia tedesca, del Roman de la Rose.
Per chiudere con le parole di Hugo von Hofmannsthal, scrittore austriaco di origine ebraica ed ideatore del nome Rivoluzione Conservatrice: “(L’Italia) paese della nostra nostalgia, dove sono città i cui nomi non sanno di vuota e rozza realtà quotidiana, ma risuonano come se li avessero formati conversando e cantando le dolci e profumate labbra della poesia stessa“. von Hofmannsthal lo scrisse per l’Italia, ma il principio è valido per ogni singolo chilometro quadrato dell’Europa. La nostra Europa.
Riccardo Ficara