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La commedia all’italiana ed i suoi archetipi stucchevoli

La società italica è stata cristallizzata per decenni nelle pellicole della cosiddetta “commedia all’italiana”, celebrata nel mondo, carica di allori, tra colonnelli e primedonne.

Poiché ce ne siamo abbeverati senza ritegno, non intendiamo rinnegarla, anzi, la teniamo sul podio, anche se osserviamo che essa fu studiata a tavolino, per alcune ragioni: prima tra le quali rinfrescare l’immagine del bel paese, offuscata da quel neo realismo (definizione oggi messa in discussione) che ne aveva oscurato i fondali, a rischio di scoraggiare turismo e business o di attirare visitatori più interessati allo spettacolo di una miseria tribale che alle bellezze dello stivale.

Inoltre il genere a sua volta “resettò” la recitazione di attori come Vittorio Gassman, che aveva iniziato la carriera con uno stile impostato e lezioso (come in “Riso amaro”).

Esiste qualche oggettivo difetto di questo filone pirotecnico, che tanto ha affascinato il mondo? Certamente uno, che serpeggia dalle pellicole più raffinate ai musicarelli: la fissazione degli archetipi.

Siamo consci del fatto che una maschera è necessaria per attirare l’energia attorale e lo sguardo dello spettatore, ma non si è esagerato?

Roma comandava, Roma ha dettato i canoni. Quindi l’italiano medio finisce per doversi identificare con il romano medio, gli altri sono macchiette. Un poco più di risalto è giunto da Napoli, con la sua scuola di prepotente appariscenza, ma gli altri devono rintanarsi nelle loro nicchie.

Questo più o meno il quadro offerto: il veneto beve e la sua donna fa la serva; il lombardo pensa solo ai soldi, ottuso e ganassa, con l’eccezione dell’angolo varesotto difeso da Renato Pozzetto & co; in Emilia si canta e si balla nelle balere dei pianori, le donne sono allegrotte. Il paesaggio è piatto, spesso nebbioso, finché non si scende al centro, in quella Toscana dove l’esplosione del fenomeno Benigni ha dato la stura a tutta una serie di epigoni a volte pesanti, che confermano la fama di carattere pepato, a dir poco, degli abitanti di quella regione. I siculi, manco a dirlo, sono gelosi e omertosi.

Genova ante Villaggio era solo una macchietta di marinai volgarotti; la Puglia si espande con Lino Banfi, escludendo la raffinatezza dei Rubini, ma siamo sempre alle “e” al posto delle “a”; rimarrebbe il Piemonte, che forse ha schivato l’unghiata dei perfidi cineasti grazie alle auguste presenze che da lì provenivano e stendevano la mano sul potere. Tutto il resto quasi non esiste.

Rimane dunque la capitale, la “grande bellezza” (che sussiego in quel film), che si è nutrita di se stessa, esprimendo caratteri e divi leggermente autoreferenziali: il resto del paese non sempre li ha graditi, ma essi, vicino al sole, si sono scaldati e forse creduti più rappresentativi di quanto non fossero. Dunque, se mai si tornerà a vedere qualcosa di valido sul grande schermo, meglio voltare pagina.

Carmen Gueye

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Riguardo l'autore

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Carmen Gueye genovese laureata in lettere antiche, già pubblicista e attiva nel sociale, è autrice di romanzi, saggi e testi giuridici