Il cinema italiano, per opinione condivisa, gode dello status di modello, mito, leggenda del secolo scorso, subito dopo quello americano, a volte superandolo o fornendogli spunti.
Il primo regista a concepire e realizzare un kolossal fu il torinese Giovanni Pastrone, con il suo “Cabiria”; qualcuno sostiene che David W.Griffith si fosse ispirato a lui per il primo polpettone a stelle e strisce, quel lunghissimo e soporifero “Intolerance”, anno 1916, che guai se qualcuno prova a criticare, visto il valore paradigmatico di capolavoro che nessuno si azzarda a levargli.
In effetti non sveliamo nulla di nuovo se affermiamo che l’esplosione della creatività italiana si ebbe con l’avvento di Cinecittà, concepita durante il ventennio anche in contrapposizione agli studios di Hollywood.
Sta di fatto che allora gli attori avevano alle spalle ben altro retroterra della maggior parte di quelli attuali, senza voler nulla togliere a questi ultimi.
Negli anni trenta emersero energie notevoli, sia sul piano delle idee che della capacità interpretativa dei divi, tutti provenienti dal teatro e dalla rivista e dunque rodati nel mestiere. Naturalmente la recitazione cinematografica comportava altre regole, ma pare, a guardare quei lavori, che il trasbordo tra generi, benché impegnativo, non sia stato traumatico.
Allora, senza televisione, una star era davvero tale, con un curriculum di rispetto, non certo quattro imprecazioni in un reality. All’apice stavano il sornione Gino Cervi, bolognese, e il sardo/veneto Amedeo Nazzari, un po’ Errol Flynn prima ancora dell’originale. In un suo film, “La Cena delle beffe“, compare la prima scena osé in una produzione “seria”, e si deve alla disinibita Clara Calamai. Quest’ultima brilla tra le donne, insieme a tante validissime colleghe, di cui l’elenco sarebbe lungo. Ricorderemo, come icona dell’epoca frou frou, la russa italianizzata Assia Noris, poi ritiratasi a Sanremo; e, più impegnata, la triestina austriaca Alida Valli, richiesta in America da Hitchcock (“Il caso Paradine”, con Gregory Peck, del 1947).
Quasi tutti in seguito troveranno sbocchi negli sceneggiati televisivi, specialmente tratti da opere famose e autori prestigiosi: un esempio per tutti sarà lo stesso Cervi, celeberrimo nella parte del commissario Maigret.
Pregevole sarà anche il contributo di questi professionisti alle sopraggiunte pubblicità televisive, basti pensare a nomi come Enrico Viarisio, Lia Zoppelli, Ernesto Calindri.
Cinecittà per un poco rappresentò lo specchio della gloria fascista, quando a lavorare erano, oltre alle star già citate, i cari al regime Leonardo Cortese, Osvaldo Valenti e Luisa Ferida (gli ultimi due, legati nella vita, finirono fucilati dai partigiani); in seguito negli studi si risentì del clima di guerra, la produzione si spostò al nord. La cupezza di quei momenti ebbe il merito di stimolare la creatività degli astri nascenti di Rossellini e De Sica, manifesti viventi del neorealismo, che diverrà una corrente letteraria, all’inverso del solito.
I capolavori italiani furono molti e il nostro paese ebbe il suo momento di apoteosi, seppure non apprezzato da tutti. Vittorio trionfò con titoli come “I bambini ci guardano”, “Sciuscià”, “Ladri di Biciclette”. Queste ultime due opere ottengono l’Oscar come miglior film straniero, ma altresì incassano le prime critiche, accusate di screditare l’immagine della nazione, che stava cercando di uscire dalla guerra col minimo di dignità.
Era giusta l’accusa di denigrare il nostro popolo? Ricordiamo che a questa critica si associò anche la promessa politica di allora, Giulio Andreotti. Certamente l’etichetta di Italia in bilico tra “sole mio” e disperazione è rimasta sempre un po’ attaccata al paese; e all’estero venivano richieste a gran voce sceneggiature all’italiana, dove non mancassero baracche, straccioni, lacrime e, in seguito, un po’ di malavita. Non a caso “Gomorra” ha sfondato ovunque, e “Romanzo Criminale” a ruota.
Il filone prosperò anche con prodotti meno titolati, ma dagli incassi stratosferici, come quelli interpretati dal rinnovato Nazzari con la maggiorata d’origine greca Yvonne Sanson: “Catene“, “Figli di nessuno“, “Tormento“. La regia era di Raffaello Matarazzo, che virava più sugli aspetti sentimentali delle angosce comuni, tra ragazze madri abbandonate, matrigne arcigne e sadiche, orgogli e pregiudizi al ragù. Né mancavano i raffinati drammi di Visconti (Senso, L’urlo), a rialzare un po’ lo stile, portandolo dai sobborghi a sofisticate ambientazioni d’epoca o rarefatte nebbie padane.
Gli anni cinquanta rimangono oggettivamente il decennio d’oro della nostra produzione meglio riuscita, la commedia all’italiana, comica senza trascurare qualche accenno sociale: da quella più leggera di Totò fino all’altra, affiancata da drammi popolari, di Pietro Germi, regista e attore genovese che propalò all’estero certi usi siculi fraintesi naturalmente per italici tout court (“Divorzio all’italiana” “Sedotta e abbandonata“).
Il resto della nostra storia cinematografica è fatta di tutto un po’, dall’impegno ideologico (Scola) al poliziottesco del fusto Maurizio Merli e dello stracciarolo Tomas “Monnezza” Milian. Per parecchio si viaggiò a gonfie vele, attirando investimenti e divi stranieri che si riciclavano o avrebbero trovato il successo prima a Roma che altrove (uno per tutti, Clint Eastwood); e grazie alle sapienti taroccate, citazioni colte, dei generi americani, Sergio Leone, (figlio di Roberto Roberti, un pioniere del cinema italiano) dapprima criticato, riuscì a farsi conoscere dai poli all’equatore, insieme a Bud e Terence.
Tutta questa epopea si riassume nella definizione di “Hollywood sul Tevere” e rese noti oltre confine registi e sceneggiatori, ma soprattutto divi: dalle rivali Loren/Lollobrigida, ad Anna Magnani, dal presuntuoso latin lover Rossano Brazzi, all’indiscusso Marcello Mastroianni o il suo modello in seconda Sergio Fantoni, ai “colonnelli”, Sordi, Manfredi, Gassman, Tognazzi; da Claudia Cardinale, alla ex modella Elsa Martinelli e le splendide Virna Lisi e Rosanna Schiaffino, Ci fermiamo, per non far torto a nessuno.
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Di fatto, negli anni settanta, iniziò la decadenza: vuoi per la concorrenza delle neonate televisioni private, vuoi per l’oggettiva crisi di idee o per le ambasce sociali del momento, con l’eccezione di lavori degni di nota (da “Il Giardino dei Finzi Contini“, a “C’eravamo tanto amati“), si filò dritti verso il pecoreccio o il barzellettistico. Così è che ci siamo attirati critiche meritate.
Qualche anno fa Quentin Tarantino espresse giudizi negativi sul cinema italiano contemporaneo. Come prevedibile, si è assistito alla levata di scudi dei cineasti nostrani e, in particolare, di una accigliata Lina Wertmuller.
La grande signora del cinema italiano era comprensibilmente irritata, ma in fondo c’è del vero. Va pur detto che la televisione ha fagocitato i generi e tutte le pulsioni che vogliamo vedere proiettate, ci vengono servite dal piccolo schermo; mentre i grandi, tra cui la stessa Wertmuller, hanno presto rallentato o cessato l’attività.
Infine, senza voler sottovalutare chi opera nel settore con competenza e buona volontà, da spettatore si deve pur ammettere che il cinema italiano è in stallo. Non si potrà pensare di tenerne alto il vessillo con le nuove procaci dive, i bei ragazzini e commediole in cui interpreti pregevoli devono adattarsi a dialoghi frenetici e corrivi.
Il tempo dei divismi folli è finito. Le nuove star non mancano di pazzia, ma non fanno più sognare: le trovi su Internet, in qualche immagine di quando non erano ancora famosi e commettevano sciocchezze, prima di restaurarsi da capo a piedi: e scema un po’ il carisma.
Quentin di certo non aveva intenzione di offendere. Anzi, da oriundo, forse voleva addirittura elogiare la nostra tradizione e spingerci a rinnovarla.
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Arriva Alberto
Ammettiamo di aver visto i film di Albertone Sordi più e più volte, di averci trovato catarsi e risate, di averlo apprezzato oltre il vezzo di non pronunziare certe doppie: iniziatore di quel romanesco pop, schietto ma elegante, alla portata di tutti, senza lo strascichio mucciniano che allontana ogni spettatore fuori dal raccordo anulare. A proposito, viva Guzzanti/Venditti che ci ha tolto il peso di una romanità giulebbosa.
Nato nel 1920, figlio di un musicista, due sorelle e un fratello da cui non nasceranno eredi, il che ha provocato la faida ereditaria forse ancora in corso, Sordi è stato considerato per anni la “voce” governativa, il megafono di Giulio Andreotti: il veicolo per distribuire pillole di saggezza borghese, in cui potessero riconoscersi la donna, il vecchio e il bambino, uscendo dal cinema, o a conclusione della serata televisiva, consolati dal mal comune mezzo gaudio.
Nel 2000 il sindaco Rutelli lo proclamò suo sostituto per un giorno, il 15 giugno, compleanno dell’attore: e pazienza se Alberto, una volta, si era fatto sfuggire un sospiro di nostalgia per i bei tempi del fascio.
Oggetto di curiosità frustrate è il celibato della star. Ufficialmente sono esistite due storie importanti: una con l’ottima collega Andreina Pagnani, eccelsa, ma non proprio il tipo che ci si aspetterebbe accanto a un divo, nemmeno alla lontana; e un flirt con la bella signorina buonasera Roberta Giusti, scomparsa appena quarantaduenne, nel 1986. Girarono anche sue foto “scandalo” con Silvana Mangano, teneramente allacciati all’ippodromo, mentre lei era saldamente sposata con il produttore Dino De Laurentiis, che non crediamo proprio fosse da contrariare insidiandogli la moglie. Si è parlato di un loro grande amore irrisolto, ma non si sa molto di più.
Alla sua morte, durante un mega meeting a caldo, il solito inverecondo Paolo Villaggio alluse a trasferte sessuali in Brasile cui Sordi sarebbe stato aduso, ma gli si impedì di andare oltre. L’interessato ha sempre affermato che avrebbe desiderato una famiglia, ma l’impegno lavorativo (lui era anche sceneggiatore e regista, oltreché doppiatore) gli aveva sconsigliato l’azzardo di finire come la maggioranza degli uomini di spettacolo, in uno sfascio di liti in tribunali, alimenti, e figli in giro.
Negli anni novanta sembrò subentrare un dolce commiato professionale, con i film “Nestore l’ultima corsa” e “Incontri proibiti” del 1998, sempre da lui diretti, intervallati da “Romanzo di un giovane povero”, con la regia di Ettore Scola.
Dopo d’allora la salute di Alberto declinò e non entreremo in merito ai feroci pettegolezzi su chi lo assisteva o, secondo alcuni, lo “blindava”. All’epoca fruivamo allegramente dell’imitazione di Max Tortora che rappresentava Sordi semiaccasciato in poltrona, con il plaid sulle gambe, tirchio e bisbetico, con qualche difetto di pronunzia che subentra nei “romani de’ Roma”, quando diventano anziani.
Apriti cielo. Albertone, divenuto albertino, convocò qualche giornalista e, visibilmente affaticato ma promettendo un ritorno sulle scene chiaramente improbabile, deprecò l’imitazione e chiese addirittura la sua cancellazione dai palinsesti: cosa che avverrà, per spontanea iniziativa di Tortora, alla morte di Sordi, il 24 febbraio 2003; e va detto che il signorile Max, interpellato al riguardo negli anni successivi, non farà mai accenno a quella caduta di stile dell’illustre imitato. Qui l’ultima intervista incriminata
Purtroppo è difficile restare all’altezza di se stessi, quando ti hanno eletto leggenda a tutti i costi.
Nella sua villa a Caracalla, una vera residenza gentilizia da neo patrizio capitolino, pare fossero ammessi in pochi. Uno fu Carlo Verdone, che lo ha raccontato in una sua autobiografia. Carlo girò due film con colui di cui era definito l’erede, ma l’accoppiata non produsse gran risultati, sotto la media rispettiva. Però il giovane fu ammesso nella magione, e ci racconta quel che di Sordi già si diceva, descrivendo ambienti foschi, da fortino, un asserragliamento umano stile “noi contro tutti”; e, naturalmente, una accidiosa parsimonia, tale che non si trovava nemmeno una saponetta decente nel bagno per gli ospiti. In verità, Carlo mostra già in questo caso una tendenza a corrodere i suoi interlocutori che sconfina nell’ambiguità.
Dei tanti film di Alberto, ne scegliamo uno a paradigma: Finché c’è guerra c’è speranza, del 1974, sua la regia.
La storia: Pietro Chiocca è un rappresentante di armi che gira pericolosamente il mondo per piazzarle, e tra i clienti privilegiati ha i dittatorelli africani. Agganciato proprio in Africa dal reporter di una grande testata, verrà immortalato sul campo e reso famoso in tutto il paese come “mercante di morte”, ricevendo l’ostilità della famiglia, moglie, tre figli e suocera, che egli mantiene lussuosamente in Brianza.
Sordi ha lamentato spesso l’atteggiamento della critica nei suoi confronti, benché egli si curi, nelle sue pellicole, di strizzare l’occhio a tutto l’arco costituzionale e oltre. Anche in questo caso ne escono male un po’ tutti: grandi sfruttatori globali, piccoli affaristi, rivoluzionari chic e altoborghesi ignavi. Ne esce bene solo lui, Pietro, nella sua allegra disinvoltura che scaccia ogni rimorso.
…continua
Carmen Gueye