Oggi si notano gli effetti della globalizzazione; molte città, in Italia e non solo, presentano un restyling affine, centri storici che pullulano di catene di ristorazione, movida standard e popolazione sempre più “datata”.
Così ci siamo apprestati alla visita della capitale siciliana, rassegnati a ritagliarci uno spicchio di visuale legato ai nostri antichi ricordi e alla nostalgia canaglia.
Nondimeno Palermo è riuscita a stupirci e ad aprire una breccia nella nostra corazza di turisti consumati, che non esclude qualche osservazione affettuosamente critica.
Certamente la cementificazione ha prodotto i suoi danni, ma, ci sembra, non più che altrove: il famigerato “sacco di Palermo” altro non è che la conseguenza del boom edilizio anni cinquanta/sessanta, quando notevoli masse provenienti dalle campagne e dai borghi si riversavano nei grandi centri in cerca di lavoro, per sostentare famiglie ancora numerose.
In taxi veniamo superati da una carovana di SUV neri, chiaramente una scorta di primo livello: il tassista ci avvisa che si tratta di un maxi magistrato che indaga nel “nuovo film” sulla mafia.
Occorre camminare con la testa ben alta e lo sguardo al cielo turchino di Sicilia per capire qualcosa di quanto è accaduto negli ultimi decenni: il barocco ci sommerge da ogni angolo, e non si parla solo dei monumenti più celebrati, ma di angoli, nicchie, piccoli canti, chiesette diroccate, edifici curiali in abbandono, che chiedono aiuto per risorgere.
Per quanto il settore gadget e souvenir sia ormai in mano ai “bangla”, come tanti minimarket centrali, appena si esce dal “passeggione” di via Maqueda e Quattro Canti, da via Roma e semicentro, si apre un mondo di boutique per ogni tasca, che offrono vetrine di abiti da sposi, evocando un cerimoniale che la cultura woke sta cercando di cancellare; e abiti da sera per il gusto di una città, che a ogni livello sociale ha sempre amato l’eleganza.
Il centro storico mostra un degrado di ritorno, anche se la piccola Vucciria e il fantasmagorico Ballarò riportano ai tempi belli e brutti di “ragazzi fuori” e prodotti che appaiono ancora rustici e genuini; occorre schivare monopattini e scooter elettrici incuranti delle regole, come un tempo i motorini truccati dei ragazzini nativi: non sembra cambiato molto, salvo che il richiamo alla movimentazione “pulita” suona grottesco in una terra che, appena imboccati i vialoni, sa già di arance e limoni, piccole spiagge alla portata di tutti, pescatori e pescherecci, e morbidi ritmi di vita non toccati dalla inutile propaganda green.
Un salto a Monreale per abbracciare la città dall’alto, un bagno nella deliziosa anche se un po’riminense Mondello e ci assale un pensiero: la vernice fosca con cui hanno dipinto questo luogo ha forse occultato una bellezza che non doveva essere rivelata al mondo.
Carmen Gueye