Home » MIRIAM MAKEBA, più sentimenti che politica
Cultura

MIRIAM MAKEBA, più sentimenti che politica

Molto si attinge dalla sua autobiografia. Miriam vide la luce in punta di continente, nel Sudafrica del 1932, in un quartiere ghetto di Johannesburg:  nata da Christina, una signora che aveva già diversi figli da un primo marito e alla fine, per ultima, avrà lei da un uomo appunto di nome Makeba, di etnia  Xhosa, (la stessa  di Mandela), che la bambina vide poco e morì presto ( solo  a settant’anni lei riuscì a incontrare dei parenti di quel ramo familiare). L’altro nome era Zenzile, per cui in famiglia la chiamavano Zenzi. Mamma Christina si arrabattava con molti lavori, e tra questi la produzione di birra, per cui la donna finì in carcere con Miriam neonata: le due vi restarono sei mesi. 

La ragazzina crebbe con la nonna, poiché la madre doveva lavorare parecchio per tirare avanti; buon per tutti che Christina, a un certo punto, si scoprì “sangoma”, sorta di guaritrice, una capacità che le fruttò un nuovo lavoro. Questo non risparmiò a Miriam una vita di sacrifici e da precoce domestica. Andare a scuola, nel modo in cui riusciva, e a messa la domenica (era protestante) le servì almeno a capire cosa le piaceva: cantare.

La minuta fanciulla ( non alta, ma di fiero portamento) incappò in un “incidente” non raro: a diciassette anni rimase incinta di un ragazzo poco più grande. Egli la prese con sé, ma lei si ritrovò a far da serva alla famiglia acquisita, partorendo poi  in solitudine, in un ospedale di suore, la piccola Bongi.

Il matrimonio risultò infelice. Il ragazzo, frustrato da un lavoro insoddisfacente, la tradiva con la sorella di lei. Miriam nella sua autobiografia non spiega di quale sorella si trattasse, né mostra di serbare rancore a nessuna di esse, che nomina sempre con affetto, quindi rimane il mistero. Ciò che è certo è la fuga per tornare a casa; il marito la rincorse, ma la madre di lei lo dissuase dal cercare mai più la figlia: non si sa come, ma dovette essere convincente.

Gli inizi furono confusi, come spesso capita: notata, ingaggiata, in gruppi maschili (Manhattan Brothers), poi femminili (Skylarks), militò anche in due diversi contemporaneamente.  Di sicuro non c’era molto da guadagnare e invece parecchio da rischiare. Occorreva stare molto attenti ai testi delle canzoni. Ormai in carriera, partecipò a un musical in cui, per la prima volta, i “bianchi” erano colleghi..

In ogni caso, il gradimento arrivò e la giovane riuscì perfino a girare due film : la commedia musicale “King Kong”, che non c’entra con l’originale ( non si parla di scimmioni, bensì di un pugile) ma ebbe successo anche in Inghilterra; e “Come Back Africa”. Con quest’ultimo, premiato dalla critica, si ritrovò catapultata al festival del cinema di Venezia e, per la seconda volta, nel 1963,  invitata a parlare all’apposito comitato delle Nazioni Unite; senza contare che aveva partecipato perfino alla festa di compleanno di John  Kennedy del 1962, con molti artisti tra cui  Marylin. Stava diventando un personaggio ingombrante. La madrepatria proibì la vendita dei suoi dischi e  le decretò l’esilio.

In quello Stato comandava da decenni l’etnia olandese dei boeri,  che aveva prevalso nelle guerre contro gli inglesi, per l’appannaggio dello sfruttamento minerario; essi avevano imposto come lingua l’Afrikaneer, un misto di olandese, inglese, portoghese e lingue tribali. Gli inglesi erano considerati più compassionevoli.  A seguito dei disordini di Soweto, dopo la morte di Stephen Biko, nel 1977, l’ONU decretò l’embargo per molti generi, come quelli tecnologici e le armi. In realtà esso non veniva realmente rispettato. L’inosservanza creò polemiche fortissime quando, nel 1987, precipitò un aereo della compagnia nazionale. A quanto pare si era sviluppato un incendio nel settore cargo, dove probabilmente viaggiava merce che non avrebbe dovuto trovarvisi, comemunizioni infiammabili.

Inoltre fu stabilito il divieto di partecipazione alle manifestazioni sportive per i sudafricani. Così, per esempio, Marcello Fiasconaro,  primatista negli ottocento metri dal 1973 al 1976, figlio di un emigrato siciliano,  per poter gareggiare prese la nostra nazionalità, ma se ne dimenticò subito dopo: se non altro, dopo aver regalato all’Italia qualche titolo.

Miriam, sempre più al top nel pubblico, in privato incassò altri dispiaceri. Per l’esilio, non riuscì a rivedere la madre, scomparsa nel frattempo; subì un’operazione che la privò, ancora giovane, della possibilità di avere altri figli. Tutto era in parte ripagato dai trionfi in giro per il mondo. A Londra conobbe Harry Belafonte, che le insegnò qualche trucco del mestiere e la convinse a seguirlo negli USA, dove  arrivò a lavorare  anche con Dizzy Gillespie e vinse un Grammy. Il mainstream USA la blandiva.

Belafonte( da lei chiamato affettuosamente Big Brother) l’aveva convinta a stirarsi i capelli, ma in seguito lei tornò alla chioma afro; probabilmente lanciò una moda, anche se si stupiva per gli approcci lesbo che il suo aspetto un po’ androgino le attirava.

Gli USA non finivano mai di meravigliarla: magari cantava nel salone di un albergo, ma poi non poteva dormirci. Miriam inizialmente amava quel paese, per lei foriero del grande successo, di possibilità insperate; ma non poté non rimanere delusa, notando baraccopoli e ghetti che ricordavano l’Africa.

Le avevano appioppato un soprannome /definizione, come negli USA piace fare : la “ragazza  del click click”, per i suoni dei suoi primi pezzi, ma non le piaceva.

Quasi ingenuamente credette di poter portare avanti un evangelico messaggio di liberazione dalla profonda ingiustizia in cui viveva la gente di colore nel suo paese, i tempi sembravano maturi.

In campo sentimentale, si sposò una seconda volta col musicista d’origine indiana Sonny Pillai. O meglio, come era avvenuto per l’infausta prima unione, il pretendente pagò il “lobola”, sorta di dote nuziale anche senza cerimonia.

Matrimonio vero fu con un altro artista, il trombettista connazionale Hugh Masekela, da cui divorzierà nel 1967. La sua vita rimaneva  complicata e non prevedeva pause. Dovette imparare le lingue, ma impegnarsi a non dimenticare la propria; cantava di ingiustizie, e fu scambiata per un’attivista politica. Lei rifiutò sempre questa etichetta, ma non si può negare che il suo fosse un impegno anche di quel tipo. Attirò così l’attenzione di Marlon Brando, noto simpatizzante di cause estreme;  lei lamentò che, nonostante la buona volontà, il divo fosse troppo teorico. Veniva accolta in giro come un’eroina ( per esempio in Suriname)e pian piano si rese conto di come la gente la vedeva.

L’equilibrismo tra musica occidentale e afro rischiò di spezzarsi, quando arrivò l’unico suo  successo veramente conosciuto da un polo all’altro, ovvero “Pata Pata” (tocca tocca), canzoncina tradizionale da lei stessa  adattata per il successo commerciale e, almeno, non sfruttata indebitamente.

Attingere alla tradizione non era una novità, però è noto come le major discografiche scippassero le risorse di ignoti autori. Il caso più clamoroso riguardò un famoso tormentone conosciuto con il  titolo di  “The Lion sleeps tonight”. Il pezzo, proveniente dal patrimonio culturale degli Zulu, si chiamava “Mbube” e così, nel 1939, l’aveva cantata un certo Solomon  Linda. Qualcuno riuscì a scovarlo; un folk singer americano lo incise come “Awimoweh” e, infine, la Disney se ne appropriò. Linda tentò inutilmente di rivendicare i suoi diritti e rimase a imballare dischi in Africa, che era il suo originario mestiere.

La Makeba lamentò spesso di  tutti i diritti o delle royalties sui dischi,  che le erano stati sottratti nei primi anni di attività. In generale si ha l’impressione di una carriera ondivaga, con momenti di grande prosperità e altri di difficoltà economiche, dovute sia all’ambiguità dei contratti discografici che alla sua generosità: aiutava sempre gli africani e soprattutto i connazionali. Inoltre si verificarono attriti con il suo scopritore e mentore Harry Belafonte, circostanza che potrebbe averla danneggiata. In ogni caso, l’intoppo più grave si verificò per altri motivi.

Avvenne un incontro, forse inevitabile, con i  movimenti per i diritti degli afroamericani. Il più famoso era quello delle Black Panthers, (Pantere nere), nato dalle rivolte  già  portate avanti da Malcom X e Martin Luther King: forse più vicino agli insurrezionalismi del primo che al pacifismo del secondo ( in ogni caso morti ammazzati entrambi). Makeba si avvicinò ai cosiddetti “radicali neri” e  sposò il loro leader, Stokely  Carmichael.

Era il tempo del repubblicano Richard Nixon. Nel 1968 , alle olimpiadi in Messico, due velocisti statunitensi di colore si presentarono sul podio dei duecento metri con un guanto nero e il pungo chiuso, per protestare contro l’apertura del loro paese a una partecipazione del Sudafrica.

Dopo l’omicidio  di King, si diffuse l’idea che Carmichael avesse fomentato le proteste susseguitesi. Inoltre Miriam accettò di cantare alla presenza del presidente cileno Allende, noto socialista, poi deposto ed eliminato all’avvento di Pinochet.

Le cose si misero male  per lei che, con il marito,  si stabilì  in Africa; ma, sempre bandita in patria, scelse il paese che li aveva fatti incontrare, la Guinea Conakry . Per tutto il periodo in cui ci stette, diciassette anni, il Sudafrica rimase in ebollizione, come dimostrò appunto la rivolta di Soweto . Le capitò di esibirsi in stati confinanti, con il cuore in subbuglio per non poter rientrare a casa. Nel frattempo, tornò alle radici.

Occorre un inciso sulla musica del cosiddetto continente nero, a volte ostica per le orecchiabilità cui hanno abituato il pubblico occidentale. Le nostre arie, da quelle “nobili” alle più leggere, si sviluppano lungo alcuni crinali, che costituiscono il linguaggio musicale:

– la polifonia, composta da  più linee melodiche indipendenti l’una dall’altra, avviatasi, secondo studiosi, circa verso il mille dopo Cristo (con la sua variante eterofonia, in cui un solo cantante segue la forma originale e altri cantori divagano sul tema);

– la melodia, cioè la successione orizzontale  di suoni con senso finale compiuto (quello che canticchiamo, in genere);

– l’armonia, una sequela di suoni che va a sovrapporsi  e concatenarsi in verticale (accordi), esprimendo una funzione nell’ambito della tonalità del brano. L’accordo consiste nel suonare in simultanea tre o più note differenti.

Base (armonia) e suoni in successione( melodia), si aggregano ad altri componenti fondamentali per formare il linguaggio musicale, come il ritmo, il timbro, l’agogica  ( variazione dell’andamento) e la dinamica (variazione dell’intensità sonora).

In Africa , per cominciare, le componenti di canto e ballo sono strettamente connesse, uno non potendo esistere staccato dall’altro, almeno come base di partenza. C’è la tendenza alla poliritmia in entrambi, da qui la sensazione di estraneità che si prova spesso nell’ascoltare cadenze apparentemente slegate, sia nel canto che nei movimenti. Invano e ingenuamente si ricerca una cadenza su cui battere il piede.

La funzione di queste arti è prettamente sociale, prima che espressiva o di svago, partendo dalla tradizione dei griots:  cantastorie, sorta di  trovatori a cui era affidata la trasmissione orale della storia e delle vicende familiari ed etniche ( appartenenti a famiglie che si tramandano il mestiere). Gli strumenti all’inizio sono rudimentali, nati per comunicare (varie forme di percussioni, il “tamburo parlante”, prodotti con materiali semplici e pelli di animali).

Poiché diverse lingue sono tonali ( con un tono prevalente, in questo caso gutturale), la musica segue il medesimo stile, diventando tutt’uno con il linguaggio, evolvendo, se il caso, in scala pentatonale o diatonale più estesa.. La questione dell’arrangiamento non si pone, ogni strumento fa storia a sé e tra questi si trovano oggetti come sonagli o fischietti o la korà ( della famiglia arpa/liuto) e l’immancabile xilofono ( o balafon), peraltro adattato in più forme. Il timbro è spesso alto e stordente. Naturalmente, con la commercializzazione, anche questo tipo di musica è arrivata a sostanziosi compromessi e ora viaggia su ritmi più convenzionali.

Miriam trovò il modo, prima, di mescolare alcuni stili africani – quelli più in uso nella zona da dove proveniva -. poi di travasarli in quelli americani , che di loro già avevano fuso le culture black and white con il blues o il doowop ( un misto di rithm and blues e rock and roll inventato dagli italoamericani, con testi romantici). Rimaneva perplessa a sentir parlare di World music: a suo avviso era il modo politically correct per evitare di definirla “third world music”(musica da terzo mondo), insomma, roba esotica, rispettata, ma non di serie A. Tuttavia questa è la sorte di tutto ciò che entra nel frullatore statunitense, dalla pizza alle scarpe: lo rileggono a modo loro, lo producono riveduto e corretto, ben fatto e  forse con poca anima.

D’altronde la discografia prettamente africana della cantante, pur vasta, non è patrimonio comune a tutti.

E’ incessante la serie delle sue avventure e disavventure. Trascorse un lungo periodo in Guinea, ospite del presidente Touré, convinto socialista, che le mise a disposizione persone e studi per incidere. Al tempo stesso l’uomo politico, in qualche modo, convinse i coniugi Carmichael ad affiancarlo nelle sue battaglie, accentuando la loro fama di ribelli.

Miriam girò l’Africa in lungo e in largo, ricevendo, da alcuni paesi, provvidenziali passaporti, che le permisero di muoversi senza impacci; ebbe modo di sperimentare che non sempre era gradita, vista l’inimicizia con gli USA; e che a volte, negli anni, gli atteggiamenti cambiavano, l’amico diventava nemico.

L’ appellativo di “mama Africa”  affibbiatole, sulle prime le sembrò ingombrante, poiché aveva dovuto riconoscere che il suo continente presentava realtà fin troppo diverse; alla fine lo accettò di buon grado, pensando al suo Sudafrica come alla base su cui tutto poggiava.

In alcuni periodi si susseguivano trionfi, in altri rovesci di fortuna. A volte perse materiale e beni personali, per esempio. O ancora : per l’impazienza di Touré, che voleva atterrare in un posto a tutti i costi con il maltempo, l’aereo privato,  su cui anche lei viaggiava con il presidente, incappò  in un mezzo disastro, che per miracolo non fece vittime.

Nel frattempo si era persa per strada anche il marito Carmichael, che in Guinea aveva un’altra donna: circostanza che, in una società  fortemente poligamica, aveva fatto sì che gli amici  non l’avessero avvisata. Arrivò il divorzio, ma lei risiedette ancora per un po’ di tempo in quel paese, defilata e più  impegnata socialmente. Cantò con una quantità di artisti, tra i quali Salif Keita,  perfino in arabo, e in Yiddish, anche se non risulta abbia tenuto concerti in Israele.

Dopo un complicato giro di contatti e grazie alle sue conoscenze, alla fine, nel 1985, approdò a Bruxelles, dove visse per qualche anno.

Tuttavia, i colpi del destino non erano finiti. Nonna da tempo, prima le morì il nipotino più piccolo, per un improvviso malore – lei era presente e non riuscì’ a salvarlo; poi  si suicidò la giovane figlia Bongi, mai riavutasi dalla perdita del suo piccolino e la mancata nascita di un quarto. Bongi era a sua volta una musicista e aveva spesso collaborato con la madre.

Miriam parla di lacrime continue; e, par di capire, sopravvisse solo perché sorretta dall’ ancestrale forza tipica delle donne della sua terra. Oltretutto, dovette lasciare Bongi sepolta in Guinea. Il suo amico Touré era morto e lei non riusciva nemmeno a trovare una bara.

Si ritrovò a rappresentare una leggenda sudafricana vivente. E la situazione, impercettibilmente, stava cambiando. Paul Simon la volle con sé per il tour “Graceland” – un esempio perfetto di world music, visto che ormai Makeba sapeva cantare proprio di tutto, dal soul al jazz.

Inoltre si iniziava a parlare finalmente di certi problemi. La situazione del Sudafrica smuoveva alcuni artisti più sensibili come l’inglese, ex Genesis, Peter Gabriel, che dedicò una canzone proprio a Biko e  si fissò come talent scout dell’emergente musica etnica, scoprendo talenti come il senegalese Youssu NDour.  Miriam però diffidava di iniziative come quella del gruppone (USA for Africa) che cantò “We are the world”.

E arriviamo al 1989, che appare come un  metaforico tam tam internazionale per voltare pagina. Gli ideali  tamburi della liberazione non potevano non arrivare anche lì, da dove erano partiti. Tutto precipitò, in bene questa volta: Mandela ( in carcere dal 1962)  fu liberato, incontrando subito qualche contrattempo familiare ( cambiò moglie, poiché la prima era a mezzo in qualche affare poco chiaro). I leader tradizionali, dopo laboriose contrattazioni,  dovettero accondiscendere ai cambiamenti e alle elezioni: soprattutto si fece parte diligente il premier uscente Frederik De Klerk, che,  titolo di incoraggiamento, fu gratificato del Nobel per la Pace in coppia con Mandela stesso ( già ultrasettantenne).

Le radio di tutto il mondo  trasmettevano “Mandela Day” dei Simple Minds, l’inno che accompagnò la scarcerazione. La nuova situazione convinse Makeba a tornare in Sudafrica, anche se in teoria era sempre una ricercata e dovette penare per “uscire” dagli appositi file informatici, che contenevano i nomi dei cosiddetti terroristi. Nelle sue parole si coglie l’ amarezza per non aver ricevuto dal grande Nelson aiuto per tornare; e per un altro dispiacere.

L’evento dell’elezione di Mandela fu infatti celebrato con una grande cerimonia d’insediamento, cui erano presenti  Belafonte, Quincy Jones  e Rita Marley. Miriam non venne invitata. Cercò inutilmente di entrare. In seguito si lamentò con  un altro invitato, l’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, inutilmente. Quando le capitò di incontrare nuovamente Nelson, era a cerimonie solenni, alla presenza di potenti come Mitterrand  a Parigi o Ben Alì in Tunisia : amabili chiacchiere, ma nessuna scusa dal nuovo presidente per la gaffe del mancato invito.

La vita di Miriam era sempre un’altalena. Lei non parlava volentieri di altre vicende legate alla  nuova politica. Ora che Mandela era in sella, tutto avrebbe dovuto funzionare bene, ma ovviamente le difficoltà erano parecchie; le violenze , forse inevitabili, la addolorarono. Forse non si arrivò a completa giustizia. La “Commissione per la verità e la riconciliazione” salvò la ghirba ai responsabili ; e  comprar casa, per un nero, e per lei stessa, fu meno facile del previsto. Ma nulla si costruisce in un giorno, ben lo sapeva. Dovette rifletterci,  mentre finalmente riusciva a piangere sulla tomba della madre; e votava, per la prima volta, a 62 anni.

La star non si arrese, e si esibì più che poté in quel suo paese dove l’avevano vista ben poco prima d’allora. Ricevette una laurea ad honorem; e, in Francia, addirittura la Legion d’onore. Con la collega e connazionale Yvonne Chaka Chaka si esibì anche a Mosca.  Divenne ambasciatrice di buona volontà della FAO (organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura dell’ONU) , ultimo di una serie di riconoscimenti e premi, sia all’artista che all’attivista.

La sua salute declinava, anche a causa dell’artrite reumatoide e, nel 2005, Miriam diede l’addio al pubblico con un lungo tour.

A Castelvoltuno

Qui entra in scena l’Italia, paese dove l’artista si era esibita più volte, anche se un po’ dimenticata negli anni, e da  cui proveniva il suo manager, Roberto Meglioli, di Reggio Emilia. La città, gemellata con una sudafricana e sempre amica dell’ANG,  diede un contributo per il centro di recupero femminile cui la cantante teneva molto. Seguì , nel nostro paese, il festival di Sanremo in coppia con Caterina Caselli, edizione 1990; un concerto con la grande Nina Simone; l’esibizione dinanzi al papa, nel 1995.

Si arriva all’Italia degli anni duemila, quella della seconda repubblica mai consolidata, della disoccupazione, della decrescita non felice, dove l’immigrato, specialmente se africano,  deve entrare alla svelta nel suo personale ufficio di collocamento: al nord industria, al sud agricoltura, o malavita; trasversalmente succede che, chi ci riesce, si ritagli quadranti di relativa tranquillità, un posto nelle associazioni, un’ attività commerciale.

Le cronache che portarono all’ultimo concerto di Miriam, sono state riferite secondo il colore politico o l’opportunità del momento; la verità galleggia ancora. Siamo a Castelvolturno, nel casertano, sulla antica e nobile via Domiziana, ora viale di degrado; a fianco un mare inquinato; intorno, disperati del sub – Sahara e oltre,  che raccolgono pomodori, sopravvivendo in baracche.

Il 18 settembre 2008 ebbe luogo una vera e propria esecuzione: sei di loro vennero massacrati da colpi d’arma da fuoco. Spacciatori che infastidivano o non rispettavano le regole?  Metodo spiccio per liberare la zona dai loro insediamenti e procedere a una nuova speculazione edilizia? Esce poi il best seller “Gomorra” di Roberto Saviano, per inchiodare nuovamente il nostro paese alla sua reputazione mafiosa.

Fu organizzato, il 9 novembre di quell’anno,  un concerto contro la camorra. E cosa meglio che invitare l”indomita Makeba? Miriam accettò, nel ricordo delle sue peregrinazioni passate, quando stringeva le mani dell’idealista ghanese  Nkrumah, del congolese Mobutu, ma perfino di Gheddafi, in nome di un unico obiettivo, l’Africa libera e magari unita. Cantò, Miriam, con passione, benché stanca e in preda ai dolori per l’artride reumatoide. E la mattina dopo, non c’era più.

Miriam si è allontanata dalla vita terrena, nell’unico modo in cui poteva. E’ morta  per loro: quei ragazzi che soffrivano e sbagliavano in terra nemica, spinti dalla fame.

Miriam Makeba fece tutto da vera donna: con l’arte, l’amabilità materna verso i più giovani, senza ideologie, che pure le vennero attribuite; forse prestata a proclami più grandi di lei, talora strumentalizzata, tenendosi in genere ben strette le inevitabili delusioni.

Carmen Gueye

Riguardo l'autore

carmengueye

Carmen Gueye genovese laureata in lettere antiche, già pubblicista e attiva nel sociale, è autrice di romanzi, saggi e testi giuridici