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Attaccare per evitare la proliferazione nucleare. Ma è veramente così? O è tutto una scusa?

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È questa la domanda che si impone oggi con forza, davanti alle crescenti tensioni tra Israele, Iran e gli Stati Uniti. Una domanda che molti fingono di non sentire, e che invece dovrebbe essere posta con urgenza: il problema è davvero la minaccia atomica dell’Iran, o è piuttosto il tentativo di mantenere un ordine mondiale fondato su alleanze e privilegi, più che su regole uguali per tutti? In questo scenario confuso e pericolosamente instabile, l’intervento di Dmitry Medvedev – ex presidente della Federazione Russa e attuale vicepresidente del Consiglio di sicurezza – offre una chiave di lettura che non può essere ignorata. Il suo messaggio, diffuso su Telegram, è duro, lucido e diretto. Non è una provocazione: è una diagnosi.

Scrive Medvedev: “A volte è bene porsi domande semplici. L’Iran ha armi nucleari? Non lo sappiamo con certezza. Ma ciò che sappiamo è che Israele ha un programma nucleare segreto. Bene, allora che li abbandonino entrambi sotto la supervisione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e della IAEA. Perché va bene per Tel Aviv ma non per Teheran? In passato lo chiamavano ‘opzione zero’. Carina, vero? Per Teheran, un programma nucleare significa sopravvivenza. E andrà avanti, qualunque cosa accada. Netanyahu un giorno se ne andrà. L’Iran resterà… probabilmente con un nuovo ayatollah.”

Parole che mettono a nudo un’ipocrisia strutturale: Israele è l’unico Paese del Medio Oriente ad avere un arsenale nucleare operativo, stimato tra 80 e 100 testate secondo la Federation of American Scientists, eppure non ha mai firmato il Trattato di Non Proliferazione (TNP), non è sottoposto a ispezioni della IAEA, né ha subito sanzioni per questo. Il suo programma è noto, anche se mai ufficialmente dichiarato, e risale al reattore di Dimona, sviluppato in segreto negli anni ’60 e reso noto nel 1986 dall’ex tecnico nucleare Mordechai Vanunu. L’Iran, invece, è firmatario del TNP, e il suo programma nucleare è sotto continuo controllo della IAEA.

Come ha dichiarato di recente il direttore generale Rafael Grossi, “non ci sono prove che l’Iran stia sviluppando un’arma atomica”. L’uranio viene arricchito fino al 60%, un livello alto ma ancora inferiore alla soglia del 90% necessaria a fini militari. Eppure, l’Iran viene trattato come una minaccia esistenziale, con attacchi informatici, pressioni militari, sanzioni e isolamenti diplomatici. Alla luce di questi dati, la domanda iniziale assume ancora più forza: davvero si attacca per fermare la proliferazione? O si attacca per mantenere il proprio dominio? La disparità di trattamento è tale da mettere in crisi non solo la coerenza dell’Occidente, ma l’intera credibilità del diritto internazionale.

E non c’è da sperare, almeno per ora, in un riequilibrio da parte delle potenze emergenti. I Paesi BRICS – anche dopo l’ingresso di Iran, Egitto, Arabia Saudita – non hanno mai messo in campo una strategia condivisa né una forza diplomatica reale per contrastare questi meccanismi. L’opposizione resta dichiarata, ma priva di strumenti efficaci. Il diritto continua a essere applicato a geometria variabile, in base a chi è l’amico e chi il nemico.

Il messaggio di Medvedev, allora, non è soltanto una provocazione. È una diagnosi corretta. Il sistema attuale non difende la pace, ma solo il privilegio. E finché il nucleare sarà tollerato per alcuni e demonizzato per altri, la sicurezza globale resterà solo un’illusione di facciata.

M.S.