“È ora di andare a casa”: con queste parole Tung Chee-Hwa, il secondo amministratore delegato di Hong Kong, ha parlato venerdì scorso per la prima volta pubblicamente alla città da quando sono iniziate le proteste.
Secondo il suo parere, le richieste dei manifestanti non erano realistiche e questi avrebbero dovuto accettare tempi più lunghi per le riforme elettorali. Il 21 ottobre gli alti funzionari di Hong Kong hanno discusso in diretta televisiva con una delegazione di manifestanti.
L’incontro è stato il primo tra le due parti da quando i disordini sono scoppiati a Hong Kong, quasi un mese fa, e il primo nel suo genere in Cina, da quando gli studenti in sciopero della fame in piazza Tienanmen incontrarono i capi di governo nel 1989.
L’incontro è stato improduttivo come quello di venticinque anni fa. Si è tenuto in una sala conferenze di un campus, e a capo della delegazione governativa vi era il funzionario più anziano del territorio, Carrie Lam, ed è stato seguito sugli schermi giganti da migliaia di manifestanti per le strade. Molti di loro hanno fischiato quando i funzionari parlavano e hanno applaudito la propria parte.
Lam ha detto che il governo di Hong Kong avrebbe potuto mandare una relazione sul movimento di protesta ai funzionari di Pechino, ma non ha detto come questo potrebbe influenzare il loro pensiero. Quasi certamente, la risposta è: non molto.
Leung ha poi dichiarato che non meglio precisate “forze straniere” si trovano dietro i disordini, e che Hong Kong è “fortunata” che il governo centrale non abbia ancora ritenuto necessario intervenire. Ha suggerito ci possono essere modi di rendere il comitato di nomina più rappresentativo. Ma i leader degli studenti sembrano poco interessati a quelle che sarebbero probabilmente piccole modifiche.
I leader degli studenti della protesta di Hong Kong avevano deciso di tenere un referendum fra i seguaci, domenica e lunedì, per decidere cosa fare concretamente nella lotta che si preannuncia più dura di ora in ora col governo cinese riguardo sia il movimento in sé (che sembra si stia spaccando al suo interno fra moderati e più “aggressivi”) che le modalità della disobbedienza civile.
I motivi della cancellazione stanno nella mancata consultazione con tutte le parti che compongono il movimento dei manifestanti, che hanno motivazioni differenti riguardo le modalità e l’utilità di tale referendum, che ad occhi di molti si annunciava come un’azione prematura.
Giovedì, i manifestanti hanno ricevuto appoggio dal Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, che invitava la Cina ad assicurare il suffragio universale, tra cui il “diritto di candidarsi alle elezioni” senza controlli o impedimenti.
Al contrario, un portavoce del ministero degli Esteri cinese ha affermato venerdì ai giornalisti che la Cina non ha ratificato la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, il che suggerisce che il sistema politico di Hong Kong è fuori dall’autorità del comitato delle Nazioni Unite.
Esiste un abisso tra il governo di Hong Kong e i manifestanti, che hanno invocato anche le dimissioni, ripetutamente, dell’attuale leader di Hong-Kong, Leung Chun-ying. Il governo ha bollato l’occupazione del movimento di strade come illegale e ha più volte detto che candidature aperte non sono consentite dalle leggi di Hong Kong.
Pasquale Narciso