“Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza” scriveva Manzoni nel Cinque maggio. Una domanda che ci si potrebbe porre pensando alla “vittoria mutilata” della Grande Guerra, il conflitto bellico che tra 1914 e 1918 vide coinvolte le maggiori potenze militari del mondo.
L’Italia fu tra le principali protagoniste di quel conflitto, impegnata com’era nella lotta con l’Austria-Ungheria per il riconoscimento delle “terre irredente”, luoghi genericamente identificati coi nomi di Trento e Trieste, sottintendendo però realtà ben più estese.
Procedendo con ordine, l’ingresso dell’Italia nel conflitto fu tardivo e avvenne – non senza patimenti dal punto di vista del dibattito parlamentare – solo il 24 maggio 1915, data resa poi immortale dalla celebre Canzone del Piave. I tormenti dei conservatori-liberali, guidati da Giovanni Giolitti, si basavano in primis sull’opportunità di scendere in campo e in secondo luogo sul valutare un cambio di fronte, appoggiando l’Intesa (con Francia, Regno Unito e Russia) e rompendo gli accordi con Germania e Austria-Ungheria stipulati addirittura nel 1882.
I blocchi contrapposti vedevano da un lato i neutrali con Giolitti, mentre dall’altro lato il Presidente del Consiglio Salandra e il Ministro degli Esteri Sidney Sonnino premevano per combattere al fianco dell’Intesa. Vinse la corrente di Salandra e Sonnino, che scavalcò pure il parere del Parlamento sfruttando lo Statuto Albertino, che consentiva al Re di non coinvolgere il parlamento nelle dichiarazioni di guerra. Si contravvenne pure alla prassi, pur di muovere la guerra all’Alleanza.
A far accettare l’ingresso in guerra contribuirono diversi fattori. Il linguaggio dell’opinione pubblica e dei mezzi d’informazione dell’epoca vedeva nascere un fronte molto forte, quello degli interventisti, che ritenevano il conflitto un’occasione d’oro per strappare all’Austria quei territori di cultura e lingua italiana che ancora non erano stati portati sotto il Tricolore.
I futuristi contribuirono grandemente ad influenzare il pensiero comune della popolazione italiana, attraverso scritti e pensieri di Marinetti e Boccioni, ma non vanno dimenticati anche interventisti di altra “origine”, come ad esempio i nazionalisti, i neo-risorgimentali tra cui il trentino Cesare Battisti, gli interventisti di sinistra con Filippo Corridoni, lo stesso Benito Mussolini.
Ma uno più di tutti è considerabile come “guida spirituale” a favore dell’ingresso nel conflitto mondiale da parte dell’Italia: Gabriele D’Annunzio. Il poeta pescarese infatti contribuì con molti scritti e comizi ad infervorare le folle e partecipò attivamente – come molti dei sopracitati, tra l’altro – all’impegno militare.
Fu proprio D’Annunzio, tra l’altro, a coniare il termine “Vittoria mutilata“. La nota sensibilità dannunziana per i territori appartenenti all’ex-Repubblica di Venezia come Istria e Dalmazia è certamente nota e lo stesso D’Annunzio riteneva che oltre a Trento e Trieste fossero da riportare in Patria anche quelle coste.
Il 4 novembre 1918 alle ore 13 venne emesso un bollettino da parte del Generale Diaz, col seguente testo: “L’esercito austro-ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell’accanita resistenza dei primi giorni e nell’inseguimento; ha perduto quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi: ha lasciato finora nelle nostre mani circa 300.000 prigionieri con interi stati maggiori e non meno di 5000 cannoni. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo, risalgono in disordine e senza speranze le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza“. Il clima di esaltazione collettiva dopo la battaglia di Vittorio Veneto era non solo chiaro, ma anche comprensibile.
Ma come si potrebbe parlare compiutamente di vittoria, festeggiando per i trecentomila prigionieri, quando sul campo di battaglia rimasero uccisi 651.000 militari, senza contare i 589.000 civili rimasti uccisi nelle operazioni militari? Quando la generazione del 1899, ragazzi di 18-19 anni, venne spazzata via per combattere con chi era alleato dell’Italia al tempo della loro nascita?
Certo, la vittoria giunse, ma andava messa su carta. Alla Conferenza di Pace del 1919, alla quale parteciparono il Presidente del Consiglio Orlando e Sonnino, l’Italia si vide riconoscere sì Trento e Trieste, ma le vennero negate l’Istria e la Dalmazia. Alla base di questa decisione vi era il principio di nazionalità, compreso tra i cosiddetti Quattordici punti del Presidente degli Stati Uniti d’America Wilson, il quale non voleva creare situazioni di annessioni territoriali di territori non abitati da una distinta maggioranza di popolazione dell’etnia vincitrice.
Non si riusciva a comprendere, allora, per quale motivo non fosse stata assegnata quantomeno la città di Fiume, tra i territori promessi all’Italia da parte dell’Intesa e inoltre abitata da oltre venticinquemila italiani. Non a caso, subito dopo la fine della guerra una delle prime gesta di D’Annunzio fu l’Impresa di Fiume, per manifestare anche l’appartenenza dell’Istria tra le “Terre Irredente”.
Una “vittoria mutilata” dunque, un termine che rimase per anni sulla bocca di tutti. Un’espressione che contribuì al formarsi di gruppi di opposizione alla politica moderata italiana, tanto da costituire uno dei principali punti ideologici del fascismo, salvo poi cambiare registro dopo la presa del potere ritenendo la “Guerra del ’15-’18” una Vittoria.
“Fu vera gloria?” dunque. Di certo, fu vera gloria per chi sul Piave, sul Brenta, sull’Isonzo perse la vita combattendo per il proprio Paese. Fu vera gloria per chi quegli eroi li ha celebrati e ricordati, senza mai scadere nella banalizzazione. Fu vera gloria per tutte quelle famiglie che si trovarono a dover piangere dei ragazzi per terre lontanissime dal loro vivere quotidiano. Fu vera gloria per gli ambasciatori? Fu vera gloria per gli interventisti tout court? Fu vera gloria per chi guidò l’esercito nella Disfatta di Caporetto? Fu vera gloria per chi, nel 1977, tolse al 4 novembre lo status di festa nazionale? Prendere una posizione in questo caso non sarebbe opportuno, ma è preferibile congedarsi con la conclusione manzoniana: “Ai posteri l’ardua sentenza“.
Riccardo Ficara Pigini