Home » L’arte e l’editoria tra vecchi cliché e nuove prospettive
Editoriali

L’arte e l’editoria tra vecchi cliché e nuove prospettive

Qualcosa sta decisamente cambiando: le riviste digitali e l’editoria digitale non bastano più, sono ormai superate dalle elaborazioni dei contenuti cartacei e dai contributi d’autore. L’esatto opposto di quello che si continua a ripetere. Molti pensano che possa trattarsi di un ritorno al passato, quando in realtà è una trasformazione in corso. Una trasformazione che include indubbiamente una riappropriazione dell’essenziale anche nell’editoria e nella sfera dell’arte.

Il problema maggiore dell’editoria d’arte sta nel fatto che si creano dei meccanismi di ‘esclusione’, lavorando unicamente sull’aspetto di promozione e sostegno dell’editoria, sia essa legata alla produzione del libro d’arte, catalogo o magazine specializzati. Il mantra della gauche caviar che si appresta a perdere quello che riteneva essere a torto uno dei suoi caposaldi. Più o meno è la stessa concezione dei direttori delle fiere d’arte che concentrano tutti gli sforzi sul potenziare la parte principale e/o commerciale in stretta relazione alle gallerie, a detrimento della sezione dedicata all’editoria. Va da sé che non basta sensibilizzare le figure quali sono i direttori di fiere, i direttori di musei e delle fondazioni, per dare ampio spazio agli editori, alle figure importanti che ruotano attorno alla circolazione della conoscenza legata all’arte contemporanea e non.

La questione non è che ci sia un pubblico interessato ad un certo tipo di pubblicazioni, ad un certo tipo di opera d’arte o meno. Il problema maggiore è che non c’è un pubblico abituato a dibattere sui temi scottanti che riguardano il bello, escluse le solite ampollosità sull’autocritica che dovrebbe fare l’arte e chi se ne occupa. Quale tipo d’arte è ben intuibile… È un dato di fatto che la maggior parte delle vendite dei titoli del settore sono confinate all’interno di nicchie autoreferenziali e del tutto incomprensibili, dalle quali si odono in continuazione delle lamentele incentrate esclusivamente sulla distribuzione dei loro prodotti editoriali e sull’avere una maggiore visibilità e posizionamento, innescando la corsa all’aporia della brandizzazione delle opere, di chi le crea ma anche di chi le racconta.

Questo, specificatamente per l’editoria d’arte, a discapito del ciclo vitale del libro, delle riviste d’arte, delle idee e del loro sviluppo, ma che riguardano anche la formazione. La linea editoriale che dovrebbero seguire tutti con le collane dedicate, non è certo quella rappresentata dalla solita casa editrice che si muove in più ambiti del mondo artistico e culturale, a seconda di come tira il vento. Piuttosto, è meglio quella di un gruppo di pensatori, artisti etc., dalle sensibilità più disparate, che si confrontano in un laboratorio di idee e pensieri lunghi, fruibili a tutti. Fare libri e delle riviste, dove l’aspetto tattile è sì importante, quanto lo sono i contenuti, la grafica, la tipologia di lavorazione, la carta, le dimensioni e il confezionamento. I quali però, come abbiamo detto, non sposano le logiche delle fiere d’arte e neppure quelle del mero oggetto.

Questo è un punto nodale: per dirla con Baudrillard, «di un oggetto che tende a contrapporsi all’essere umano», amplificando il potere del mondo degli oggetti sul soggetto, cioè noi, l’uomo. L’intendere l’editoria non contempla un’editoria d’arte sempre più “oggettificata” e spersonalizzata, che vive dell’alienazione tra pubblico ed oggetto-libro d’arte. È di primaria importanza lo stimolo della lettura d’arte, della poetica, della narrativa e della saggistica. Per essere ancora più chiari, alla semplice narrazione la scelta non può non cadere sul racconto, cercando di riannodare il filo conduttore esistente tra i quattro generi, mantenendone inalterate le differenze.

Ma per ottimizzare il tutto, è anche opportuno azzerare il concetto di piattaforma editoriale e artistica, la quale reca in sé una certa ideologia della mediazione e dell’intermediazione, che rappresenta ormai gran parte del tempo sottratto alla cultura dell’arte e della letteratura in generale. Annichilite, come sappiamo, da un tipo di specialismo autoreferenziale che assomiglia ad una «servitù volontaria» ben descritta da Phillipe Vion-Dury, giornalista molto attento a questo tipo di dinamiche. Le quali, non dimentichiamolo, vengono implementate attraverso i nuovi modelli di business e tecnologie che sono ormai preminenti anche nella sfera dell’arte.

Solo con un laboratorio di idee, aperto ad ogni confronto e contributo, una spinta in direzione del dialogo trasversale con le diverse sensibilità del mondo culturale, editoriale e artistico, è possibile innalzare il ripristino dell’intelligenza a scapito della mediocrità. Occupandosi di editoria, arte e letteratura ma non solo, è d’obbligo farlo non come un insieme di atomi scollegati uno dall’altro ma, di individui facenti parte di una comunità in stretta relazione tra loro.

Un laboratorio di idee dalle conoscenze artistiche e culturali accessibile, che pensa sia giunto il momento di anteporre i contenuti alle tendenze, la concezione che identifica nelle idee il principio e l’oggetto della conoscenza, all’astrattezza di un certo tipo di “realismo” a lungo incardinato su di un mercatismo che ha intriso l’editoria e l’arte. Un compito molto importante che mette al centro del discorso l’habitat ed i luoghi dove si sviluppano le nostre vene artistiche, le opere d’arte in tutte le loro forme, compresa l’editoria d’arte. Il concetto d’Arte che molti italiani non conoscono e che fa parte della cultura italiana e del nostro continente, apprezzata in tutte le sue sfumature in Europa e all’estero.

Parliamo di quel genius o daimon che dialoga e cammina con il mito senza contare i suoi passi, senza badare al tonfo di quello che rimane del pensiero razionalista e del culto della modernità, riverberi lontani della caduta definitiva dei tabù che ne avevano sancito la messa al bando.

La decodifica di Mythos e Logos dalla pletora del culturalismo

Guardando con attenzione il quadro di Rembrandt il “Filosofo in meditazione”, siamo lontani dalla proiezione indotta dal titolo che fa pensare a un filosofo in meditazione sotto una scala… La scala a spirale, presentata come il simbolo della dialettica ascendente che conduce al cielo delle idee platoniche, si rivela in realtà un semplice escamotage culturalista. Lo sguardo vuoto non è certo quello di un filosofo in meditazione ma di un padre che attende fiducioso il ritorno del figlio che riuscirà a guarirlo perché ispirato da un angelo. Questa è la vulgata. Ma ad una attenta lettura che esula dal soggetto religioso, invita ad un’altra interpretazione che definiremmo “pagana”.

Innanzitutto, ogni opera pittorica per essere compresa necessita di un’operazione di decodifica, soprattutto in questi nostri tempi così poveri di verità. Nella pittura figurativa, un’immagine illustra un testo e un testo si ritrova nella maggior parte dei casi ad essere l’accessorio di una frase, titolo o etichetta, che da sola dovrebbe rappresentare se non proprio un’idea, almeno una lezione. Ma comprendere la pittura mitologica, capire la pittura che ci racconta il Sacro, decifrare la pittura a soggetto storico, è possibile o pensabile solo se il fruitore già conosce quello che c’è da vedere. Se manca questa conoscenza, lo spettatore non riuscirà certo a indovinare sulla base di una singola immagine.

Ben altra questione è credere che la scrittura abbia indebolito questo potere, contrariamente a chi pensa che tutto sia oggi ad appannaggio della trasmissione orale. Parliamo ovviamente del contesto attuale. La verità nell’epoca in cui ci troviamo è ahimè molto diversa: non impariamo più quelle cose che prima erano una caratteristica del tramando orale ma nonostante ciò, sappiamo di poterle ritrovare all’interno dei libri. Nell’antichità invece, potevano conoscere l’Iliade, l’Odissea e l’Eneide a memoria. Cosa che oggi è destinata ad un’altra tipologia di trasmissione, alla Rete e all’etere. Ma quando la memoria muore, è più corretto dire quando il ricordo muore, di conseguenza, assieme a lei, muore anche il sapere. Dunque, il Mito muore perché non c’è più memoria e perché si è perso il tramando con l’avvento della scrittura? Assolutamente no.

Dovremmo prima di tutto pensare a quello che abbiamo rimosso: un giovane o chi per esso, è in grado di capire l’allegoria del trittico della Battaglia di San Romano di Paolo Uccello senza conoscere tutto quello che avvenne, il contesto geo-storico-sociale, della geografia politica, delle finalità della contesa e degli obiettivi geopolitici che hanno visto contrapporsi fiorentini e senesi? Anche qui, la risposta è no. Ma l’argomento principale che in pochi dibattono è che l’arte fornisce sempre l’occasione per cristallizzare le mitologie di una civiltà. Proprio quello che sta accadendo ora, con l’avvento di una civiltà differente da quella cui siamo abituati.

Possiamo allora dire che in questa nuova civiltà che sta per nascere, l’editoria e l’arte in generale, giocano un ruolo fondamentale. L’opera d’arte e l’immagine concentrano in sé tutta un visone del mondo. L’artista e lo scrittore, sanno che si tratta di dire ed esprimere tutto, perlomeno il maggior numero di cose, con la massima efficacia. L’altro compito da tenere presente è quello di trovare l’analogon, inteso come l’oggetto, scritto o opera, che serve in via definitiva a riassumere tutto. Un termine che possiamo ben associare alla metonimia artistica, e perché no editoriale e degli scritti, il centro dell’opera, il suo senso, il suo epicentro, che risiedono nel dettaglio. Stiamo parlando di una trasformazione che riguarda quella cosa mentale, riassumibile nell’intelletto. Una cosa mentale ma anche una mentalità che è anche spirituale, che andrà molto probabilmente a prendere il posto della trascendenza, di quella monade incapacitante dell’intendere l’arte e l’editoria, con una rinnovata spiritualità immanente.

Non possono esistere arte e letteratura che non comprendano l’attraversamento di prove, alla stessa maniera di come non possono esistere dei sentimenti o un sentire comune senza prove di reciprocità. La virtù della saggezza ci invita a praticare di più e meglio la virtù ma non ad accontentarsi di parlarne. Desideriamo una tipologia di editoria e d’arte che contemplino la maieutica, il criterio di ricerca della verità e la sollecitazione del soggetto pensante a ritrovarla in sé stesso, a trarla fuori anche dalla propria spiritualità ma non solo. L’esortazione delfica «Conosci te stesso», coltivando le idee che scaturiscono dal bello e vivendo la nostra sfera, l’arte e l’editoria come la vita, come soggetti che pensano la propria vita, avendo vissuto il proprio pensiero.

Francesco Marotta