Da settimane ormai, in questa frenetica e politicamente assurda moda dei sondaggi, si rincorrono Matteo Salvini e Giorgia Meloni. La Lega e Fratelli d’Italia si alternano ormai in vetta alla “classifica” dei partiti con frequenza quasi giornaliera, scavalcandosi di uno zero virgola percentuale, in una tanto accesa quanto falsa corsa alla leadership del centrodestra.
L’aggettivo “falsa” non è usato a caso, bensì è proprio il nocciolo della questione. Per chiarirlo, è opportuno fare un balzo indietro di quasi trent’anni: fino all’avvento di Silvio Berlusconi, non si è mai parlato in Italia di un centrodestra compiuto. Esistevano gli esponenti di destra della Democrazia Cristiana, esisteva il Partito Liberale Italiano con le sue posizioni fieramente anticomuniste, esisteva il Movimento Sociale Italiano che raccoglieva le adesioni sia di chi si riteneva della destra sociale sia di chi era stato un sostenitore dei partiti monarchici, che progressivamente confluirono nel progetto politico di Almirante. Ma una vera e propria coalizione tra questi elementi non si era mai creata, anche per via di un sistema elettorale proporzionale puro che mal si sposava con le coalizioni.

Con la discesa in campo, si è invece potuto assistere al primo grande progetto di centrodestra: a dirigere i lavori, Forza Italia in quanto partito personalista del Cavaliere ed erede della tradizione popolare e liberale della DC e del PLI; al suo fianco, in quella che è stata definita come “coalizione a geometria mista”, Alleanza Nazionale – erede del MSI – e la Lega Nord di Umberto Bossi. Prendendo gli “antenati” – o i precedenti risultati, nel caso della Lega – come valore di riferimento, la coalizione a sostegno di Berlusconi sarebbe dovuta arrivare al massimo al 25-30%. Il centrodestra arrivò al 42,84%, registrando per tutti i partiti il record storico di percentuali toccate fino a quel momento, a eccezione della Lega che comunque raddoppiò la sua presenza in Parlamento.
Negli anni a seguire, tra vittorie e sconfitte, il centrodestra ha comunque potuto sempre contare su una base elettorale minima del 42%, come nel 1996, fino a toccare il 49% nel 2001 e nel 2006. Questa polarizzazione ormai evidente degli italiani convinse Berlusconi a dedicarsi a un progetto che potesse rappresentare la versione italiana del Partito Repubblicano americano: Il Popolo della Libertà.

Il progetto unitario, pur soddisfacente dal punto di vista elettorale se si prende come dato il 37,38% del 2008, una percentuale da “vecchia DC”, rappresentò però una vera e propria sciagura per il prosieguo della carriera politica di Berlusconi. Tradito da Fini, abbandonato da Alfano, Berlusconi rimase con alcuni dei suoi a rifondare Forza Italia, assistendo nel 2014 alla più disastrosa ecatombe della storia del centrodestra italiano: sommando i risultati di FI, NCD-UDC, Lega e FdI, si arrivava infatti a un 31%, cifra insoddisfacente per pensare di tornare al Governo del Paese.
Naturalmente da lì partì l’operazione di restauro del Centrodestra, con una Lega sempre più forte grazie alla leadership di Matteo Salvini, con FdI maggiormente strutturata soprattutto al Centro-Sud, con FI che rappresentava un’ottima alternativa per l’elettorato moderato rimasto scottato dal tracollo di Matteo Renzi in seguito al referendum del 2016. La destra recupera così il 10%, arrivando a toccare di nuovo quota 41,5% alle politiche del 2018. Una vittoria di Pirro, visto che poi fu solo la Lega a intestarsi la vittoria governando con il Movimento 5 Stelle.

Si arriva così ai giorni nostri, con un Centrodestra che dal 49,60% raggiunto alle europee del 2019 grazie principalmente alla Lega, si attesta oggi al 48,10% con l’accoppiata FdI-Lega a trainare e FI ad apportare un inferiore ma comunque prezioso contributo.
Premesso che una perdita di 1,5% in quasi due anni è fisiologica, dopo aver abbandonato il Governo in quello che, a tutti gli effetti, fu un – grave – errore di Salvini, dopo una pandemia, dopo la gestione personalistica del momento più grave della storia repubblicana italiana da parte di un leader capace di raccogliere intorno a se un’area non indifferente del centrosinistra, a eccezione del nucleo riformista di IV, Azione e +E, tuttavia non si può fare a meno di notare che la competizione tra FdI e Lega sta facendo del male alla coalizione, con il tacito consenso di FI interessata solo a chiudere il più in fretta possibile le trattative della Federazione del Centrodestra così da assicurarsi dei candidati all’uninominale al Sud e mantenere un buon numero di parlamentari. Bisogna poi considerare che i risultati incassati tra il 1994 e il 2008 sono stati in larga parte dovuti a una leadership chiara, innegabile e incontestabile, alla quale contribuire ciascuno con le proprie sensibilità: i liberali con FI, i nazionalisti con AN, i federalisti con la Lega, i cattolici con l’UdC.
Sensibilità che oggi sembrano essere completamente dissolte: se Forza Italia è quella che più spiccatamente affronta discorsi ideologici che poi però rischiano di naufragare quando si osservano prese di posizione che cozzano inevitabilmente con le richieste dell’elettorato, la Lega e Fratelli d’Italia stanno cercando di parlare alle stesse persone. Si rincorrono sul green pass, sul vaccino, sull’immigrazione, sul no al DDL Zan, dicendo le stesse cose con sfumature diverse. Dov’è il federalismo della Lega, che sarebbe stato un valore fondante soprattutto nella crisi pandemica quando lo Stato centrale scaricava tutte le colpe sulle Regioni, dimenticando che le chiusure di ospedali e terapie intensive erano state determinate da leggi nazionali? Dov’è il conservatorismo nazionale di FdI quando si deve sottolineare con vigore che il PNRR è carta straccia se le priorità di questo documento sono green economy, inclusività e diritti umani invece di famiglie, imprese e giovani?
Invece di affrontare un discorso tematico, di riappropriarsi di ideologie necessarie per definire i campi d’azione quando – e soprattutto se – si sarà al governo, il tentativo è quello di denudare un re già nudo: senza andare tanto lontano nel tempo e nello spazio, le polemiche asprissime nei vari consigli regionali o provinciali, dal Trentino alla Campania, i dispetti nella scelta dei candidati, gli strappi in avanti o indietro da parte dell’uno o dell’altro partito sono segni al contempo di un eccesso di sicurezza e di una crisi di panico. Salvini e la Meloni stanno parlando sempre alle stesse persone, visto che la somma delle loro percentuali nel 2019 era il 40,79% dei voti, mentre i sondaggi di oggi proiettano l’asse Lega-FdI al 40,5%. Se Salvini e la Meloni pensano di essere adatti a fare i leader del centrodestra, diano seguito – stavolta veramente – al progetto berlusconiano del 2008: realizzino il partito unico, istituzionalizzino delle primarie, mettano in campo il loro progetto per il Paese lasciando decidere ai tesserati e ai simpatizzanti chi sia il leader, cominciando a parlare anche a chi è fuori da quel 40,5%.

Questo però non viene fatto, perché non c’è l’interesse politico a tirare la carretta – o il Carroccio – per un’altra stella che non sia la propria. Da ciò, si deduce che non solo la scelta del leader del Centrodestra tarda per interesse politico, ma anche per mancanza di materiale: quando due soggetti si trovano sostanzialmente appaiati, è evidente che nessuno dei due sa dare quello “slancio” che può consentire agli italiani di scegliere con vigore di stare col Centrodestra.
Salvini e Meloni, allora, invece di affondarsi l’uno con l’altro in guerre di strategia che non sono capaci di vincere semplicemente perché sono difficili da far digerire a un elettorato che vorrebbe solamente governare, si impegnino per dare maggior spazio a quelle personalità che possono dare un contributo positivo all’area. Se Giorgia Meloni è la prima dei tre “leader” per fiducia secondo l’ultima rilevazione Demos, bisogna anche considerare che si trova al quinto posto nella classifica generale dopo Draghi, Conte e Speranza. E viene battuta anche sul fronte interno: Luca Zaia, Presidente del Veneto, si attesta al 59% di fiducia, contro il 51 della Meloni e il 44 del “suo” segretario Salvini.
Invece di parlare di partito unico escludendone un altro, o di lotta per la leadership di un’area, forse sarebbe bene iniziare a guardare alle figure di raccordo, dato che il vero leader non è colui che si autoproclama così, ma quello che è tale all’evidenza di tutti.
Rinaldo De Santis