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Dal caso OJ Simpson alle accuse di Paola Egonu

O.J. Simpson, classe 1947, da San Francisco, è già famoso come campione di football, quando diventa attore: uno degli afroamericani più popolari degli anni settanta, anche se tendenzialmente un comprimario, più che un protagonista. Lo si vede in “Radici“, “Capricorn One“, “Inferno di Cristallo“, “Cassandra Crossing“, “Una pallottola spuntata“. La “O” sta per Orenthal. In seconde nozze OJ sposa una Barbie californiana, la splendida poco più che adolescente Nicole Brown. Nascono due bambini, il quadretto è idilliaco. Pare.

Nicole inizia a lamentare violenze domestiche, partono denunce ed esistono anche fotografie del suo bel viso tumefatto. OJ è sotto accusa; lei chiede e ottiene la separazione e si concede brillanti serate losangelene, in giro per feste e locali.

Nicole e il giovane Ronald Goldman, una sera di giugno 1994, vengono ritrovati davanti a casa di lei, nel vialetto, accoltellati a morte.

Nulla di questa è storia è chiaro, nemmeno il ruolo dei protagonisti. Tutto avviene dopo una serata al ristorante, ma Nicole è arrivata lì con Ronald Goldman? Secondo alcuni lui è il suo parrucchiere, per altri invece un cameriere, che l’avrebbe raggiunta a casa in un secondo tempo, per restituirle occhiali dimenticati al tavolo; comunque egli viene indicato come amante, quando, più probabilmente, è un amico.

La polizia di LA è prudente quando si tratta di celebrità, ma deve pur sempre interrogare l’ex marito; Orenthal non ci sta e scappa con un pick up bianco, innescando una rincorsa lungo “le strade della California” simile a quelle dei telefilm di Starsky ed Hutch o di Chips, che dura giorni.

C’è un guanto sporco di sangue, ci sono impronte sul viale, la fuga, sembra tutto chiaro: fine della brillante carriera di un maturo ragazzone, che non ha saputo resistere alle pressioni del successo.

O.J. va al processo con un pool di avvocati chiamato “dream team“, che scova, tra i poliziotti incaricati del caso, il solito agente razzista; e poi contesta la prova del DNA. La difesa scalda il cuore degli americani afro, sostenitori a spada tratta dell’innocenza del divo. Il giudice, Lance Hito, non ha l’aria di un cuor di leone e assolve.

I ghetti festeggiano, la famiglia di Ron si dispera, la sorella di Nicole promette di non dimenticare e fa causa.

In modo rocambolesco, nel processo civile che seguirà, i giudici stabiliranno che Orenthal deve un sacco di soldi ai parenti delle vittime: perché mai, se è innocente? È la legge americana, anzi californiana, che introduce cavilli un po’ astrusi per distinguere i livelli di responsabilità; e forse vuol favorire i risarcimenti e sgombrare le aule da processi lunghi e imbarazzanti.

L’incarcerazione di Mike Tyson qualche anno prima, quando, nello stesso periodo, un rampollo Kennedy veniva dichiarato innocente per la medesima accusa di stupro, avrà influito sulle coscienze, e generato il timore di un’accusa di razzismo. La vicenda non sa di buono e lascia l’amaro in bocca.

Per la cronaca OJ concederà i diritti di un suo libro ai parenti di Goldman. Argomento: cosa avrebbe fatto se fosse stato davvero l’assassino.

Infine la giustizia lo ribecca, con l’accusa di incursioni armate in proprietà privata: lui si giustifica asserendo di aver voluto recuperare dei cimeli che gli appartenevano.

Questa la vicenda, in breve. Tornarci dopo quasi trent’anni significa rivedere i dubbi che già allora galleggiavano, ma ancora non si osava esprimere.

Sono emerse storie di vita intorno ai coniugi Simpson, all’inizio poco conosciute. Il lifestyle hollywoodiano non è da tutti. Pusher, attori super hard, festacce diuturne, ruotavano intorno ai protagonisti del panorama sociale, da rispettare senza per questo farne apologia. Di talché oggi si può affermare che l’assoluzione di OJ aveva qualche fondamento; meno ne avevano le manifestazioni di giubilo di molti afroamericani all’uscita della sentenza, a parziale riprova che l’ideologia antirazzista viene agitata per manovrare le folle anche quando, forse, si tratta di tutt’altro.

Nel 1991, in epoca non ancora internettiana, le televisioni di tutto il mondo diffusero le immagini di un gruppo di poliziotti “caucasici” mentre pestavano un black, Rodney King, a Los Angeles. L’uomo non si era fermato a un controllo, provocando l’inevitabile inseguimento. Gli agenti furono assolti, sostenendo di aver seguito i protocolli in caso di simili comportamenti, e specificando che Rodney aveva manifestato segni di un pesante stato di allucinazione da sostanze. Il fatto innescò i disordini nel quartiere di Watts, di cui fecero le spese sostanzialmente i commercianti locali, in genere asiatici, che nulla avevano a che fare con la questione. King è morto nel 2012, presumibilmente sotto l’effetto di un cocktail di droga, alcol e farmaci.

La scena del pestaggio in effetti è degna di un pulp di Tarantino e rinfocolò le polemiche sulle regole che consentono l’uso della violenza alle forze dell’ordine americane, ciò che appare il tema centrale.

Inevitabilmente il pensiero corre al caso italiano di Federico Aldrovandi.

Nel maggio 2020, a Minneapolis, George Perry Floyd perse la vita a causa della pressione sul collo di un agente di pattuglia, intervenuto con altri colleghi, su segnalazione di un negoziante che riteneva di essere stato pagato da Floyd con una banconota falsa. Il poliziotto agì sotto l’occhio vigile di tutti i presenti dotati di telefonini. Ne è seguita una dura condanna a tutto l’equipaggio di polizia.

Sia King che Floyd erano pregiudicati, circostanza che ha un peso nell’orientare gli interventi delle forze dell’ordine USA, una nazione che ha una lunga tradizione di determinazione, per così dire, nei confronti dei cittadini “ribelli”: un atteggiamento premiato al cinema, dove Callaghan/Eastwood o Texas “Norris” Ranger si fanno perdonare iniziative che nella vita vengono stigmatizzate.

Siamo in Italia, nel settembre 2020, anno segnato da una quiete pandemica, che forse ha generato solo compressione e frustrazione.

Pare che una banda di sballati dediti al kombat girasse tranquillamente per Colleferro e abbia deliberatamente aggredito e ucciso a calci il ragazzo di origini capoverdiane Willy Monteiro Duarte. Parte del processo è visionabile su “Un giorno in pretura”. Meno visibile è la povera vittima, di cui sono girate pochissime e non contestualizzate immagini. Da quanto si è potuto ascoltare, e non è molto, si è trattato dell’esito infausto di una delle tante risse che si verificano indisturbate in quel territorio. I fratelli Bianchi (che strana coincidenza), considerati capofila dell’attacco teppista, presentano un aspetto inquietante, maschere stilizzate dell’antieroe per eccellenza. I due sono stati condannati, pene severe per alcuni loro sodali.

Non sappiamo se davvero i familiari dei fratelli abbiano pronunciato le improvvide frasi a loro attribuite, circa “cos’hanno fatto di male, quello non era la regina Elisabetta”, degne di un delirante dialogo tra rapper della West Coast; ma che si sia trattato di una lite degenerata e non di un attacco preventivato a sfondo razzista, appare un fatto ormai riconosciuto.

Tanto ci porta ai giorni nostri e alla pallavolista italiana di origine nigeriana Paola Egonu, che dal palco di Sanremo ha lanciato soavi strali alla popolazione italiana, bollata ovviamente di razzismo.

Nessuna accusa è mai stata lanciata, e certamente non con tanta acclamazione, da Fiona May, o Valentina Diouf o Marcell Jacobs, atleti che hanno onorato i nostri palmarès e godono dell’incondizionata stima dello stivale.

Ce lo meritiamo?

Carmen Gueye